Deixa a vida me levar
“Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come l’istantanea percezione di una felicità assoluta e incondizionata. Se le sarebbe portate dietro per sempre. Perché è così che ti frega, la vita. Ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un’immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più…” A. Baricco
Viaggiare è scoperta, è difficoltà, è ispirazione.
Viaggiare è osservare, assaggiare, entrare in vite altrui e rubarne un po’, di quella vita, è lasciarne un pezzo della tua. Viaggiare è seminarsi dentro immagini, odori, suoni e lasciare che si sedimentino lentamente, per creare dei substrati di essenza che faranno per sempre parte della tua persona.
Posto finestrino, non avrei mai potuto perdermi l’emozione di osservare l’atterraggio del mio primo viaggio intercontinentale. Necessitavo di una visuale perfetta, per iniziare a scorgere le coste sudamericane, le luci delle megalopoli e placare quella leggera ansia, costante di tutte le mie partenze in solitaria.
Partenza desiderata, forse un po’ avventata, che non mi aveva dato il tempo di costruirmi aspettative, perché in fondo sapevo che sarebbe stata una nuova sfida e che sarei rimasta sorpresa da qualunque cosa mi attendesse nella terra da luz.
Il Brasile, il gigante sudamericano, mi ha accolto con un caldo torrido, costante, senza tregua.
Non parlavo una parola di portoghese, per la prima volta mi sono trovata in un paese senza sapere come comunicare. Le prime impressioni sono state contrastanti: accoglienza ottima, ho capito subito che i brasiliani sono persone calde. Le strade là fuori però, mi davano un senso di freddezza estrema, nonostante i trenta gradi: la sicurezza è un tema delicato, in quella terra del nord, dove si va in giro tutto l’anno in infradito e dove non esistono le stagioni.
Ci ha messo poco, a farmi entrare negli occhi e nella pelle gli innumerevoli contrasti di quell’enorme paese, superando le difficoltà iniziali e lasciandomi trasportare dalle bellezze di quel luogo e di quelle persone.
Persone che mi hanno aperto le porte delle loro case e trattata come una figlia. Perché in fondo basta poco, per sentirsi a casa dall’altra parte del mondo. Un piatto caldo, una risata che parla la stessa lingua, la condivisione di esistenze così diverse ma allo stesso tempo così simili.
Delle prime settimane ricordo la luna piena tra le palme, lo stupore per i colori e i sapori della frutta tropicale, il riso con i fagioli quotidiano, la dolcezza dell’acqua di cocco. Ricordo i primi bagni nell’Atlantico e lo smarrimento nella difficoltà di comunicazione.
Ricordo anche il forte desiderio di poter scoprire la città liberamente, passeggiando, e di come mi sia stato fortemente sconsigliato, per l’alto rischio di assalti senza distinzione di quartiere. Non ho mai pienamente accettato la limitazione della libertà personale, ma ho dovuto imparare a conviverci. La povertà estrema e la mancanza di sicurezza sono tuttora, purtroppo, un tema ricorrente per il quale non esiste soluzione.
Ricordo il mio luogo di meditazione e riflessione nel giardino della facoltà di Lettere; in ogni città in cui sono stata, alla fine mi sono sempre rifugiata lì. Sarà una forma di ribellione ai miei studi economici.
Il centro de Humanidades della UFC (Universidad Federal do Cearà) è un grande cortile formato da tanti piccoli edifici; ogni edificio è una Casa de Cultura che rappresenta una nazione. Ho frequentato una lezione di italiano e parlato del mio paese; è stato bello parlare la mia lingua e percepire una sincera curiosità per i miei racconti.
In quei giorni mi sono sentita una cittadina del mondo come mai prima.
È stato bello farsi entrare lentamente una terra immensa in un’anima già ripartita.
Rio, “la Cidade Maravilhosa”, con la sua Copacabana fatta di palme, di tapioca calda ripiena di queijo, di carioca (così si chiamano gli abitanti di Rio), che vivono la loro città incantata, che fanno scorrere la loro quotidianità seduti sulle sedie rosse o facendo jogging, in una tranquilla mattinata invernale, con la spiaggia semi deserta.
Ipanema con il suo promontorio e uno dei tramonti più belli mai visti dalla roccia dell’arpoador. Il Cristo Redentor e l’incredibile vista che regala la salita al Corcovado. Di quelle che non vuoi smettere di osservare, che chiudi e apri gli occhi per imprimere una foto nel tuo cervello, per non lasciarla sbiadire mai.
Il Pan di Zucchero e la visuale opposta; il freddo che si è alzato lassù e le nuvole minacciose non hanno cancellato la meraviglia. Sembrava quasi che il sole, prossimo al tramonto, stesse lottando in mezzo alle nubi per regalarci qualche raggio ribelle, per illuminare il termine di una giornata perfetta. La favela di Rochina, la più grande di tutta Rio e quella sensazione di disagio che ti entra in gola e non ti molla più. Si mischia con l’odore, il caos, i topi, l’acqua che ti gocciola in testa, la spazzatura. Si mischia con i profumi dei dolci della panetteria, con i colori dei braccialetti variopinti ricavati dai fili elettrici, con il suono dei motori dei moto-taxi che ti portano su, nella parte più alta della favela. Loro che guardano te e il gruppo di “gringos” biondissimi e dagli occhi blu, con macchine fotografiche da 1.000 euro che scattano foto di altri ESSERI UMANI, manco fossero animali in gabbia. La mia macchina fotografica è rimasta in borsa. Mi sono limitata a osservare e provare a capire come mi sentivo, mentre camminavamo per le stradine strette, i vicoli della Rua n.1, lasciando la precedenza agli abitanti locali che avevano fretta di vivere la loro quotidianità. Tra una cerveja nel baretto e le parabole in ogni casa, che permettono il contatto con il resto del mondo, quello fuori favela, quello che noi conosciamo. Non c’è spazio, non c’è ordine, non c’è intimità.
Eppure gli occhi di quelle persone erano sereni. Forse sono più felici di noi. D’altronde si sono costruiti una casa, una famiglia e hanno un cielo da guardare. Si può essere felici.
La sambinha dell’ultima sera in un quartiere del centro; “un lunedì sera nel tempo dell’allegria”, recitava un cartello nei pressi dell’evento. Evento locale, non turistico, con nativi che suonavano e cantavano e si muovevano a ritmo di Samba. E lì il Brasile ti entra dentro, proprio nelle viscere e ti lascia un segno indelebile. Lo respiri, ti fai travolgere da quel suono, da quella semplicità.
Praia Vermelha, una fantastica spiaggia rossa ai piedi del Pão de Açúcar. Un’insenatura naturale, lontana dal caos del quartiere centrale, circondata da palme, con vista sull’oceano e sulle varie isolette della baia. Lacrime di felicità. Pace infinita.
E poi Jeri, un luogo straordinario, incontaminato ed immenso; un posto fatto di dune e lagune, di sfrecciate in buggy in mezzo al deserto, senza asfalto, senza smog, senza rumori. Solo silenzio e natura, tu e l’universo, bagni al tramonto sotto la duna do por do sol, colazioni tropicali, canzoni dell’infanzia in portoghese.
Dicono che puoi andare via dal Brasile fisicamente ma il Brasile non se ne va da te. Ti rimane dentro e ti fa tremare e poi sorridere e poi ti fa venire voglia di ballare e di essere felice. La SAUDADE. Mi ha da sempre affascinato questa parola, nessuna lingua al mondo riesce a rispecchiarne veramente la traduzione. È bella quanto dolorosa e sa di vissuto, di terre lontane.
Il Brasile mi ha insegnato a convivere con il diverso, rispettarlo, accettarlo. Mi ha insegnato a non lamentarmi, a vedere le cose con semplicità. Mi ha insegnato che a tutto c’è una soluzione. Mi ha dato fiducia nell’umanità più profonda.
Le “immagini, gli odori e i suoni” si sono trasformati in felicità assoluta e incondizionata e hanno trovato il loro prezioso spazio nella famosa valigia, protagonista indiscussa e fedele compagna di vita.
“Que Seja Feliz”
*Fotografie di Erika [Salmone]
Salmone va controcorrente, ma mai controcuore. Attraversa l’anima segreta dei continenti, cerca risposte nei luoghi del mondo, scopre universi di possibilità. Torna sempre da dove è partito, con la valigia piena di nuove consapevolezze.
Prossima pubblicazione: giovedì 27 settembre, rubrica “Spigolature”, firmata da Comiale [spigola].
Spigolature tratta di respiri raccolti qua e là, durante una ricerca incessante, minuziosa, artistico-esistenziale. Si incontrano spigoli e si scoprono angoli.
PODCAST > L’articolo “Deixa a vida me levar” letto da Erika [Salmone].