Storia di una vita a fuoco lento
Tre cosce di pollo sfrigolavano senza troppa convinzione sul fornello. La Pinuccia vi aggiunse un canonico rametto di rosmarino, poi diede una voce al figlio: “Me’ vo a Mèsa”. “Eh?” le ritornò senza esito dalla sala. Pinuccia buttò gli occhi al cielo, e riprovò in italiano: “Vado alla Santa Messa, fermami il gas tra una mezz’ora e scola i fagiolini”. La pentola a pressione, infatti, aveva finito di fischiare, e la valvola già dava gli ultimi gorgoglii, incerta tra il su e il giù. “Se, ok, cia’”. Tante volte sembrava che il Paolo, così si chiamava il figlio della Pinuccia, prendesse sul serio il di lei invito a “tenere a mano” solo a parole, in tutti i sensi.
Per precauzione, Pinuccia abbassò la fiamma, levò il grembiule, osservò nello specchio la messa in piega del pomeriggio precedente – che già le cadeva azzurrognola sulle tempie – controllò dallo spioncino che il pianerottolo fosse libero e se ne uscì, la borsetta stretta sotto l’ascella destra, il bastone da passeggio nell’altra mano.
Paolo liberò un sospiro, si alzò e portò la fiamma al massimo, per gran gioia delle cosce di pollo, che grate ripresero vita nella padella. Tornò quindi sul divano e ricominciò a pigiare i tasti del telecomando. Erano quasi le dieci di una del tutto anonima domenica di fine agosto, e in casa l’aria era ferma, prigioniera del sole che fin dal suo sorgere picchiava contro la finestra dell’appartamento, splendidamente esposto a est. Quel giorno Paolo non aveva impegni, quel giorno come il successivo del resto e il precedente, per la verità: essendo la sua unica occupazione il percepire la disoccupazione, nel mentre sognando… Sognando cosa, Paolo?
Sogna di alzarsi dal divano, Paolo, sogna di scrollarsi di dosso l’odore di quella cucina sempre a fuoco basso, sogna di prendere un aereo, di scambiare la tuta con un completo di lusso, sogna un’auto anziché la bicicletta, e a volte non sogna niente, non prova più nulla e riesce appena a ricordare che giorno è. Pinuccia invece non sogna più, nemmeno troppo educata a farlo. Una generazione senza spazio per i desideri, a meno che non corrispondessero alla necessità.
Pinuccia andava dunque alla Santa Messa con i crucci di sempre. Quel “santa” non ce lo aveva aggiunto per caso: erano ormai anni che aveva smesso di insistere con il figlio, ma se qualche sfizio Pinuccia si toglieva, ecco consisteva nel far arrivare una parolina qui e una là al Paolo. Giusto a rimarcare quel che si supponeva una madre avrebbe dovuto rimproverare a quel figlio scioperato, ormai ben oltre la soglia dei secondi “anta”, che era la sua croce e l’oggetto di tutti i “mi pento e mi dolgo” che settimanalmente riferiva al don Giustino.
Anche perché, nell’approssimarsi delle forme squadrate della chiesa di quartiere – che Pinuccia frequentava una mezz’ora ogni mattina, il giovedì pomeriggio per le pulizie di fino e naturalmente la domenica – le venne incontro il profilo dritto e orgoglioso della maestra Piera. Nate una al principio e l’altra alla fine dell’anno che verso la metà aveva portato la sciagura del Patto d’Acciaio, la Pinuccia e la Piera avevano frequentato con ben diverso profitto le scuole elementari della maestra Bevilacqua (una classe unica per tutti i figli del paese, dalla prima alla quinta). Comunione e Cresima, processioni e feste di paese, i carri armati americani che sfilavano per le strade e i fascisti umiliati sul sagrato: i grandi fatti di piazza erano memoria comune per la Pinuccia e la Piera. Non lo erano stati invece i piccoli accadimenti che avevano condotto le due vite lungo vie ben lontane: aveva continuato a studiare, la Piera, ed era ritornata a scuola da maestra, mentre la Pinuccia si spaccava la schiena in fabbrica e verso sera rincasava di corsa, per mettere insieme una cena che potesse tenere in forze il giovane marito, tale Ferdinando, durante i turni di notte.
Erano sposati da un paio d’anni e vedendosi poco, avevano fatto giusto in tempo a mettere al mondo un bimbetto spaurito e magro da spavento – il Paolo appunto – prima che al Ferdinando venisse un colpo. Era stramazzato a terra a cento metri da casa, in una notte di nebbia come non se ne vedevano più, al giorno d’oggi. L’avevano trovato un paio d’ore dopo, ma non c’era rimasto nulla da fare se non andare a chiamare la Pinuccia in fabbrica. Quello stesso anno, anche la Piera aveva dato alla luce – a pochi giorni da Natale – una creatura rosea e angelica con una testa bionda come suo padre, il segretario comunale. Era bello, Andrea, e tutti se lo mangiavano con gli occhi, quando la madre orgogliosa lo portava a spasso nel passeggino ultimo modello.
Insomma, la vita aveva diversamente servito la Piera e la Pinuccia: “Per grazia di Dio conservo almeno la salute”, ripeteva però quest’ultima la domenica al don Giustino, quasi scaramanticamente. Ma quella faccenda del Paolo… Di voglia di studiare il Paolo non ne aveva mai avuta. “Sarebbe anche intelligente, ma non si applica”, non mancava di ripetere la maestra alla madre, che ogni volta si presentava ai colloqui con la crocchia scompigliata e le mani nere nascoste nello scusà, “nel grembiule, mi scusi il dialetto, signora maestra”. E proprio alla Piera era toccata l’impossibile impresa di cacciar qualcosa nella testa del Paolo, qualcosa che non fossero le corse in bicicletta, le zuffe in corridoio, le lucertole morte infilate nelle cartelle delle compagne.
Era finita che il Paolo aveva preso la terza media e tanti saluti, mentre il coetaneo Andrea – spedito abbastanza alla svelta dalle suore – raccoglieva lodi su lodi. Sapessi l’Andrea come sa le tabelline! Vedessi l’Andrea che disegni che fa. Sentissi l’Andrea suonare il pianoforte. La Pinuccia, che amava senza dubbio il suo figliolo, sperava così di farne il bene, di pungolarlo, spronarne almeno un moto d’orgoglio. Non sapendo che l’effetto ottenuto era esattamente l’opposto: Paolo, annichilito davanti all’insostenibilità della sfida, si convinse prima degli altri di essere un asino e un buono a nulla, e così lo divenne. Odiando nemmeno troppo in segreto l’Andrea, che difatti, non appena se ne presentò l’occasione, si ritrovò con un occhio pesto per il solo fatto di aver voluto sfidare il Paolo al tirassegno alla festa del santo patrono.
I due erano cresciuti all’ombra dello stesso campanino, ma venivano su come i semi della parabola: uno gettato nella terra fertile, l’altro in mezzo ai rovi al bordo della strada. Finché l’Andrea – a questo punto diplomato, laureato, e felicemente avviato a una brillante carriera da ingegnere – si era trovato un impiego e una moglie nel grande capoluogo, facendo fagotto e lasciando finalmente il Paolo a consumarsi per conto suo in quel triangolo compreso tra la casa della madre, il bar centrale e lo stabilimento che lo attendeva per i turni in catena di montaggio.
Levatosi una buona volta di torno quel metro di paragone che gli rendeva i giorni impossibili, il Paolo si era creduto per un certo tempo sgravato dalle continue litanie della madre e aveva accolto di buon grado la prospettiva della vita semplice di paese, adocchiando anche qualche giovane non ancora maritata a cui donare quel poco che aveva. Se non che la Pinuccia e la Piera, raggiunto entrambe il traguardo della pensione, si erano ritrovate di nuovo compagne nei banchi della chiesa. La maestra Piera, anche lei invecchiata suo malgrado, aveva progressivamente perso il crocchio di studenti e mamme che ancora si fermavano a omaggiarla dei loro saluti e non le era rimasto come argomento che quel figlio lontano e di successo. Lontano sì e sempre impegnatissimo, ma così premuroso da chiamarla ogni giorno dopo il tg sul “primo” perché la madre continuasse a essere fiera dei suoi passi gloriosi.
Così le notizie che dal capoluogo si riversavano nel telefono la sera, la mattina arrivavano alla Pinuccia e a cena mandavano di traverso al Paolo le già troppo asciutte fettine di tacchino che la madre stracuoceva senza grassi. Venne così a conoscenza dei dettagli dello sfarzoso matrimonio, del viaggio di nozze in Polinesia; seppe, il Paolo, dei lavori per ristrutturare l’attico di piazzale Loreto e di una Milano che fioriva di cantieri a firma “Studio Bestetti”, che l’Andrea dirigeva col vento in poppa e il piglio fiero e corsaro, lo stesso con cui il sabato e la domenica timonava la sua barca su e giù per l’arcipelago toscano. Fu informato del primo, del secondo e del terzo figlio, tutti maschi e tutti rivestiti di finissimi corredini e doppi nomi. Alla fine, avendo forse anche troppo aspettato, il Paolo non ne poté più e una sera fece giurare alla madre che in quella casa il nome dell’Andrea non sarebbe entrato mai più.
Smise di accompagnare la madre alla messa della domenica, e si tenne alla larga dal perimetro della parrocchia. Prese a farsi vedere invece con maggiore assiduità al bar Centrale e a spaccarsi la testa su numeri e probabilità, puntando una volta alla settimana al superenalotto una cifra che faceva ogni volta sorridere la Mirella, addetta alla cassa dei tabacchi. E si arrivò dunque a quella domenica di agosto. Quando la madre rincasò, Paolo ne percepì l’agitazione prima ancora che entrasse dalla porta: ci vollero molti insoliti tentativi prima che Pinuccia indovinasse la chiave giusta. La donna si affacciò sul salotto con l’urgenza repressa di una notizia che si vuole dare ma si preferirebbe tacere e Paolo capì che doveva avere a che fare con la maestra Piera. Pinuccia aprì e chiuse subito bocca e stava quasi per ritirarsi quando si fermò di colpo, come un segugio intento ad annusare l’aria. La preda doveva trovarsi in cucina. Pinuccia corse di là e vide le cosce di pollo orrendamente dorate, il gas tempestato di gocce di unto che erano arrivate fin sul pavimento. La Pinuccia quasi rischiò di finire gambe all’aria e approfittando della giravolta tornò in salotto e gridò al figlio tutto d’un fiato: “Ha detto la Piera che l’Andrea si candida alle elezioni per la Regione Lombardia e la domenica prossima mi farà avere i santini. Tu li porterai da quegli imbecilli dei tuoi amici del bar Centrale e gli farai un po’ di buona pubblicità, t’è capì? Hai capito?”. Si contavano sulle dita di una mano le volte che il Paolo aveva sentito la madre gridare così: annuì, andò a lavarsi le mani e apparecchiò la tavola. Quando il pollo fu pronto, per la prima volta dopo anni fece persino un segno della croce.
Poi, quello stesso pomeriggio, il telefono squillò. Si era verso le quattro, la Pinuccia ricamava una tovaglietta écru per il banchetto di beneficienza dell’imminente festa di Maria Nascente. Il Paolo – già da un pezzo assopito, coccolato dalla nenia della Formula 1 – percepì come uno strappo e si tirò su, colto sul fatto. In quella casa il telefono era un soprammobile silenzioso al pari delle statuine di maiolica impettite sulle mensole di fòrmica. Udì la madre dire poche parole: “Sì, Piera… Oh… Grazie, mi dispiace, ci vediamo presto” e riacquistato un poco di coraggio dopo lo sgomento del pranzo borbottò un commento velenoso.
“Taci! Era la maestra Piera… Il ragionier Bestetti ha avuto un infarto”. Per la seconda volta quel giorno il Paolo rimase a bocca aperta e non seppe che dire. Così si limitò a un laconico: “Vado al bar”. Al bar Centrale la notizia arrivò prima di lui, dal momento che il ragionier Bestetti era una personalità, in paese. Dalla bocciofila ai tavoli del bridge, dal club escursionisti al coro di voci bianche non c’era attività che non annoverasse tra i suoi soci, o almeno prodighi sostenitori, il fu segretario comunale.
I funerali furono fissati di lì a due giorni. Il pomeriggio del martedì, le vie attorno alla chiesa si riempirono di auto di lusso, il gonfalone del comune arrivò ondeggiando sorretto da un vigile accaldato. Un tappeto di fiori rivestì il sagrato, attraversato da una lunga fila che compostamente attese il proprio turno per il libro delle firme. Quasi minacciato dalla madre, il Paolo recuperò dall’armadio un paio di pantaloni di lino che erano appartenuti al Ferdinando e stringevano decisamente sui fianchi, cui abbinò la solita polo color aviazione che andava bene per qualunque avvenimento uscisse dai binari della sua vita in tuta. Scelse un posto in un angolo in fondo alla chiesa, da cui osservare senza essere troppo osservato e attese.
Soprattutto attendeva l’arrivo dell’Andrea, in ritardo come una sposa civettuola. La moglie già da un pezzo si faceva aria con un ventaglio di pizzo: enormi occhiali neri riuscivano appena a nascondere non tanto il dolore quanto un evidente stato di insofferenza. La maestra Piera indossava il solito portamento risoluto; qualche crepa si intravvedeva appena nelle rughe attorno agli occhi e nell’ombra scura che li contornava.
Stretta la mano a tutti i parenti, abbracciata la Piera e lasciato un buffetto sulla guancia dell’ultimo nato dei Bestetti, don Giustino si rassegnò a suonare la campanella che annunciava l’inizio della funzione. E allora Andrea arrivò. Attraversò la navata in una maniera che Paolo non seppe paragonare che al volo di un elegante rapace, sfiorò la guancia della madre con un bacio e cinse la schiena della moglie con un braccio. Il Paolo non lo perse di vista per tutta la cerimonia: l’irrequietezza delle ginocchia, le occhiate furtive al polso sinistro, quel movimento incontrollato delle mani che allontanavano i capelli dalla fronte. Tutto in lui denotava un atteggiamento che Paolo non si sarebbe mai aspettato, verso quella figura paterna che il resto della chiesa salutava mestamente e con profonda gratitudine. Andrea sembrava più intento a contenere la rabbia che il lutto.
Fu questa la ragione che spinse il Paolo a disattendere il piano di lasciare le esequie appena prima della benedizione e sparire dalla porta laterale. Invece si ritrovò schiacciato nella calca dei concittadini che si fece abbraccio attorno alla famiglia per portare le condoglianze. Il Paolo e l’Andrea si guardarono un momento, si riconobbero e si strinsero educatamente la mano. “Condoglianze”, disse Paolo.
Andrea ricambiò con un grazie asciutto e senza trasporto. Un lampo interrogativo passò negli occhi di Paolo e Andrea se ne accorse. “Lascia stare, scusa, mio padre era… e mia madre… ho sentito tanto parlare di te. Tanto davvero. Salutami la cara mamma, so che la tratti come una regina…”, aggiunse con un sorriso malinconico. Poi altre mani afferrarono Andrea, e altri visi si fecero avanti a baciarlo. Ancora una volta Paolo restò immobile, non sapendo bene cosa fare di quel che aveva udito. Ma qualcosa dentro di lui si mosse prima di qualunque pensiero consapevole, qualcosa che si manifestò come un desiderio irrefrenabile e incontenibile.
A Paolo venne da ridere: prima fu un lieve movimento delle spalle, poi chinò la fronte come singhiozzando, protetto così dalla commozione generale. Ma quando la Pinuccia finalmente lo prese per un braccio, trascinandolo via dalla piazza, Paolo rideva, e rideva di gusto. “Vieni via, vieni via, disgraziato. Ma vuoi che ti prendano per matto, oltre che per deficiente? Comportarsi così, davanti alla casa del Signore, in un giorno come questo. Guarda l’Andrea, guarda l’Andrea che contegno che aveva! Che classe. E quella camicia! Ah ma farà strada lui in politica, sissignore…”. Liberata ormai del tabù, come una diga crollata, la Pinuccia impiegò tutta la strada a decantare l’Andrea e proseguì a cena, davanti alla minestrina di brodo di carne e non smise di parlare nemmeno durante il tg sul primo. Poi fu improvvisamente esausta, alzò un dito minaccioso verso il figlio ma non aggiunse altro, e si addormentò in poltrona, illuminata a tratti da un film di Fernandel. Ma il Paolo di tutto questo non si accorse, perché il Paolo rideva, rideva, e rise. Rise fin quasi a piangere.
*Fotografie di Letizia Rossi
Sogliola ha due facce. Una fruga sul fondo, dove l’acqua finisce e ricomincia la terra. All’altra non bastava un occhio solo, per tutto quel cielo di mare. Sogliola è una giornalista con gli occhi spalancati sulla poesia.