Non Lieu
“Adorava gli aeroporti: le piacevano l’odore, il rumore, l’atmosfera, la gente che correva qua e là con le valigie, felice di partire, felice di tornare. Le piaceva vedere gli abbracci, cogliere la strana commozione dei distacchi e dei ritrovamenti. L’aeroporto era il posto ideale per osservare le persone e la riempiva sempre di un piacevole senso di anticipazione, come se stesse per succedere qualcosa”
Cecelia Ahern
Marc Augè – antropologo francese – definiva gli aeroporti come nonluoghi, spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Delle strutture anonime, finalizzate alla circolazione accelerata delle persone e dei beni, superfici in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione.
Il transito presso il nonluogo (previa identificazione), determina il tagliare i ponti con il luogo di provenienza per farsi trasportare verso nuove destinazioni, in cui in qualche modo l’individuo perde il proprio riconoscimento e la propria definizione in un gruppo sociale. Descritto così, il “luogo nonluogo” diventa una scatola di individui in transito, senza identità, senza emozioni, senza personalità. Degli spazi senza nulla da raccontare.
Eppure gli aeroporti sono fatti di persone e brulicano di vita, di emozioni: ansia, attesa, desiderio, paura, incertezza. Addii strappacuore, ritrovamenti, ire furibonde, psicosi da decollo. Storie che si intrecciano, tra coincidenze mancate, corse trafelate, acquisti dell’ultimo minuto, soste interminabili. Umanità stropicciata dai fusi orari, culture che si mescolano tra i terminal, che si distinguono per abbigliamento religioso, tolleranza all’attesa, chiacchiere a gran voce, silenzi rispettosi.
I caratteri culturali vengono a galla se si osserva con attenzione, se ci si prende il giusto tempo per analizzare quello spazio/tempo fuori dallo spazio e fuori dal tempo, prima dei richiami all’imbarco per una o l’altra destinazione, che ci ricordano di affrettare il passo, per riappropriarci della nostra identità definita all’esterno.
Racchiudono talmente tante emozioni, espressioni di diversità, segreti e desideri che è difficile pensare che il meccanico atto del transitare non lasci il segno del nostro passaggio.
È indubbio che gli aeroporti non determinino l’essenza dei luoghi in cui si arriva o quelli che ci lasciamo alle spalle, ma è difficile rimanere indifferenti e considerarli come spazi anonimi.
Terzani, nel suo “Un indovino mi disse”, li definisce come “isole di relativa perfezione anche nello sfacelo dei paesi in cui si trovano, dove l’impatto con il nuovo è quello con il nastro che distribuisce i bagagli, dove la commozione di un addio viene distratta dalla bramosia del passaggio obbligato attraverso il duty free shop, ormai uguale dovunque”. Dove non importa che ora sia per il nostro orologio biologico, ma un frappuccino e un cheeseburger siamo sempre (o quasi) sicuri di trovarli, riconoscendo una valenza positiva all’omologazione di questi nonluoghi.
Sicuramente la globalizzazione, il consumismo sfrenato e “l’antropologia della surmodernità” hanno reso questi spazi meno interessanti agli occhi dei più, un puro mezzo che ci permette di attraversare frontiere con facilità, di superare confini senza sforzi. Allo stesso tempo mi piace pensare che ciascuno di noi possa avere degli aeroporti del cuore, dei nonluoghi a cui affidiamo le nostre attese, i nostri desideri, i nostri fallimenti, i nostri segreti.
Dei contenitori di sentimenti che non parlano nessuna lingua, che non hanno una cultura dominante, apparentemente omologati ma ricchi di differenze, di approcci alla vita, di aspettative per i viaggi che ci aspettano; spazi con identità diverse, modellate dalle culture che li attraversano e in qualche modo li definiscono. Gli aerei sono una comoda scorciatoia di distanze, ma non per questo devono limitare la nostra percezione dell’esistenza.
Le mie storie migliori sono sempre cominciate in un aeroporto: non lasciamo che la standardizzazione dei nonluoghi limiti la nostra comprensione del mondo.
*Fotografia di Erika [Salmone]
Salmone va controcorrente, ma mai controcuore. Attraversa l’anima segreta dei continenti, cerca risposte nei luoghi del mondo, scopre universi di possibilità. Torna sempre da dove è partito, con la valigia piena di nuove consapevolezze.
PODCAST > L’articolo “Non Lieu” letto da Erika [Salmone].