La libertà di scrivere e di pensare
Non aggiorno la mia rubrica da molto tempo, così tanto che non so da che parte cominciare. Come quando fuori piove, e come quando un amico che non vedi da mesi, da anni, ti chiede ‘come stai, cosa mi racconti‘. Comincia tu, dico io: prima ti ascolto e poi capisco come riassumere, cosa selezionare, cosa omettere. E intanto ordiniamo un caffè, ma senza brioche, almeno io; a meno che ci siano quelle mignon. Non ci sono quelle mignon? E allora per oggi niente, sono già le 11 e sarebbe solo golosità. Solo golosità?
Siamo al bar della biblioteca, è sabato mattina. Stare qui è bello proprio quando fuori piove: ci sono rami con le ghirlande elettriche, quelle natalizie o da notte di mezz’estate, sempre accese. Quando dico ‘ti prego, inizia tu’, solitamente succede che poi inizio io, e se inizio io è perché attacco a parlare di qualche libro o mostra che ha acceso il mio entusiasmo fino a portarmi in un mondo fatto di ipertesti, link, associazioni di idee e fame di ricerca, diciamo pure di un viaggio su carta con biglietto certo di andata – e un ritorno con data aperta e atterraggio in un aeroporto che non so mai quale sia e dove: è un punto sulla mappa di un mio nuovo mondo.
Sì, inizio io.
La scorsa estate per la prima volta mi sono dedicata alla lettura di Natalia Ginzburg, in netto ritardo rispetto a quanto avrei voluto nel mio curriculum di lettrice. Ho trovato, senza cercarlo, un Vita immaginaria usato, edizione Mondadori, 1974: edizione cartonata, blu, senza sovracoperta. È la raccolta degli articoli pubblicati sulla «Stampa» e sul «Corriere della Sera» fra il ’69 e il ’74, quella che contiene il tanto citato ‘Estate’. Ed è lì che si è aperto il libro, tra le mie mani, appena preso dallo scaffale; un segnalibro naturale, la piega presa dal lettore, o dai lettori, che mi hanno preceduto. Quante volte avranno letto quella pagina? Perché tante da lasciare il segno?
Nell’edizione del ’74 non ci sono ovviamente note a raccontare il contesto della pubblicazione di ogni articolo e, in una sera d’estate dove pensavo di leggere spensierata, romanticamente con la finestra aperta e un tè messo a raffreddare nel frigo, senza difficoltà, al massimo chiedendomi un po’ di concentrazione – che è la distrazione che mi piace -, dai primi capitoli mi sono scontrata con la scrittura della Ginzburg; una voce che in quella raccolta ho avvertito a tratti così sinceramente scorretta – forse perché in modo scorretto sincera. Così sinceramente scorretta che mi ha imposto da subito la ricerca nel catalogo della biblioteca di un’edizione più recente di Vita immaginaria – con le note, una prefazione – da mettere a confronto: edizione Einaudi, 2021.
‘Vita Immaginaria’, uscito per la prima volta da Mondadori nel 1974, è la terza raccolta di scritti non narrativi di Natalia Ginzburg dopo ‘Le piccole virtù’ (1962) e ‘Mai devi domandarmi’ (1970). Non è stato mai più riproposto come opera singola. Questa prima sua comparsa con il marchio Einaudi, a quasi mezzo secolo di distanza, ha perciò il valore di una novità editoriale.
Quella sera d’estate in cui ho incontrato per la prima volta Natalia Ginzburg ho scelto, per gioco o per sfida, di limitare il più possibile una ricerca immediata sul web di recensioni, filmati, documenti. E non è stato semplice, perché l’incontro, attraverso Vita immaginaria, mi ha un po’ destabilizzato. Per capirci: quando due anni fa ho conosciuto Simone de Beauvoir, il nostro dialogo si è svolto nel più naturale dei modi, capendoci da subito. Era sempre estate: l’ho ascoltata, ho preso appunti, ho integrato il suo pensiero con il mio. Perché con Natalia Ginzburg no? E perché mi aspettavo che anche con lei l’incontro fosse così semplice e lineare? Perché in modo insensato metto a confronto le due esperienze?
Ho scelto di studiare senza chiedere da subito un aiuto all’opinione comune, l’interpretazione consolidata, quella giusta e approvata, dentro e fuori accademia, quella con la quale non corro il rischio di sbagliare, o il rischio di compromettermi: ho scelto di darmi il tempo per una conoscenza graduale, il più libera possibile, per mettermi in dialogo diretto con l’autrice: di sfruttare la mia ignoranza della Ginzburg come leva, e mettere per un attimo da parte il mio rossore o lasciarlo liberamente parlare.
Quante poche volte mi concedo di conoscere un autore, anche un classico, come se non lo conoscesse nessuno prima di me? Perché l’incontro con Natalia Ginzburg in Vita immaginaria coincide con uno scontro?
Un mio piccolo pezzo di cielo è un tavolo, un pavimento, un letto, cosparso di libri, fogli degli appunti, una ricerca in corso: Vita immaginaria nell’edizione del 1974, nell’edizione del 2021, Mai devi domandarmi, Le piccole virtù, Lessico famigliare… Ogni mia sera di agosto un volo tra la scrittura della Ginzburg e le note ai suoi testi, gli intrecci, i rimandi, a intuire qualcosa di più anche sul suo famoso ‘Odio l’estate’; a scoprire la sua vita in relazione alla casa editrice Einaudi: così intrecciata. Così intrecciata da spaventarmi e così intrecciata da avvicinarmi. Quando la scrittura e la vita si guardano profondamente negli occhi e si chiedono l’una all’altra: ti prego consegnami alla leggerezza anche solo per un attimo. Ma la leggerezza in quel momento può essere solo un atto di piena consapevolezza, una volontà allo stato puro, un esercizio lucido, una prova di coraggio, è resistenza: e non è più leggerezza. Quando la scrittura e la vita, guardandosi negli occhi, a volte scelgono di chiudere gli occhi insieme per ascoltarsi senza infingimenti.
Del mestiere di scrivere la Ginzburg dice:
Perché questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. (…) M’è accaduto di conoscere bene il dolore dopo quel tempo che stavo nel sud, un dolore vero, irrimediabile e immedicabile, che ha spezzato tutta la mia vita e quando ho provato a rimetterla insieme in qualche modo, ho visto che io e la mia vita eravamo diventati qualcosa d’irriconoscibile rispetto a prima. D’immutato restava il mio mestiere, ma anche lui è profondamente falso dire ch’era immutato, gli strumenti erano sempre gli stessi ma il modo come io li usavo era un altro. Sul principio lo detestavo, mi dava ribrezzo, ma sapevo bene che avrei finito col tornare a servirlo e che mi avrebbe salvato.
Voglio raccontare un piccolo esempio dei notturni della Ginzburg, dei momenti nei quali si incontrano le sue ‘parole di notte’. Ho incontrato di sicuro prima di lei la parola ‘odio’ nella letteratura, ma non mi ricordo dove – Odi et amo a parte -, e non so perché è incontrando ‘odio’ in Vita immaginaria che, per la prima volta, mi sono accorta – ed è solo un piccolo esempio -, che questa parola è rimasta sempre lontana dalla mia penna: io non l’ho mai affrontata. Nell’incipit di ‘Estate’, in undici righe è usata quattro volte: è la struttura portante, scandisce tutto l’inizio, non può essere trascurata; e al centro dell’odio, contrapposta e insieme inglobata, c’è la parola ‘amo’, un’unica volta. È un incipit che, per la sua capacità di essere così incisivo, si avvicina a una canzone:
Odio l’estate. Odio il mese d’agosto fino al giorno di ferragosto. Passato il ferragosto mi sembra di uscire da un incubo. Mi sembra che tutto lentamente migliori per me. Cominciano i temporali d’autunno. Amo l’autunno e nell’autunno, di solito, scrivo qualcosa. Nell’estate rarissimamente riesco a scrivere. Non odio l’estate per il caldo. Non mi accorgo del caldo e non me importa niente. Mi ricordo che fa caldo solo quando ne parlano gli altri. In verità ho cercato più volte di spiegarmi perché odio tanto l’estate.
Nell’articolo ‘La condizione femminile’, dove il mio dialogo con la Ginzburg è di conflitto aperto e dichiarato – il suo pensiero sul femminismo non può che apparire assurdo e consiglio di leggerlo perché agevola un’analisi rispetto alle proprie conoscenze e posizioni sul femminismo e sulla condizione femminile oggi, che è ancora problematica, di fragilità, ignorata, taciuta -, è usata di nuovo la parola ‘odio’ in un contesto, come dicevo assurdo, e in un’affermazione che a me risulta indecifrabile:
Il sentimento essenziale espresso dal femminismo è l’antagonismo fra donna e uomo. Tale antagonismo, il femminismo lo giustifica con le umiliazioni subite dalle donne. Le umiliazioni danno origine a un desiderio di rivalsa e rivendicazione. Il femminismo nasce dunque da un complesso di inferiorità, antico di secoli. Ma sui complessi di inferiorità non si può costruire una visione del mondo. Il pensiero è chiaro quando li ha conosciuti e ne cammina lontano. Sui complessi di inferiorità non si può costruire nulla di solido. È come voler costruire una casa con del materiale deteriore e scadente. In una giusta visione del mondo, al centro stanno l’amore e l’odio, e il falso e il vero. Nel femminismo al centro non stanno l’amore e l’odio, né il falso e il vero, ma al centro stanno le rivalse, le rivendicazioni, l’umiliazione e l’orgoglio.
Nella frase «in una giusta visione del mondo, al centro stanno l’amore e l’odio, e il falso e il vero» intuisco che c’è l’orizzonte filosofico-culturale dell’autrice con le sue domande sull’esistenza del Dio della Torah o del Vangelo, sul credere o non credere, la sua morale. E se considero quella frase nel suo contesto o se la estrapolo, la isolo, la osservo, la leggo e la rileggo, comunque diventa per me un muro che è solo un labirinto di non-senso.
Perché scrive una ‘giusta’ visione del mondo? Perché in questa visione mette al centro, a coppie, l’amore e l’odio – e il falso e il vero? Ha scritto questa frase dando per scontato di essere compresa? Quale morale stava abbracciando? Al posto di quel ‘giusta’, oggi, avrebbe scritto ‘in una mia personale visione del mondo’? Perché ha proprio questa visione del mondo? Perché la rappresenta come qualcosa che ha un centro? Perché la inserisce in un discorso sul femminismo?
La parola ‘odio’ nella scrittura della Ginzburg di Vita immaginaria, anche in ‘Estate’, mi sembra carica, oltre che di emotività, di una biografia e di riferimenti culturali che per la prima volta mi ha chiesto di essere vista nella sua portata abissale: un abisso dove si impastano e si confondono un piano strettamente personale, viscerale, di sentire e vivere l’odio – di sentire e vivere -, con un piano filosofico culturale religioso.
La lettura di Lessico famigliare in qualche modo può essere un’esperienza più facile, se lo si legge come fosse un romanzo: ti interroga, ma puoi lasciare anche che scorra, parola dopo parola, godendo solo del bello e ammirevole, facendo finta che non sia difficile, lasciandoti trasportare dalla narrazione: perfetta a dieci anni come a novanta, ideale ogni dieci anni, dai dieci ai novanta. Con Vita immaginaria non puoi invece permetterti di avere una vaga idea della Storia, una vaga idea della vita dell’autrice, una vaga idea del suo lessico, del suo lessico nel suo orizzonte culturale, una vaga idea della vita. La lettura di Vita immaginaria è un dialogo perché ti chiede, volente o nolente, cosa ne pensi, e lo domanda in modo sfacciato; dice al lettore – sicuramente al lettore nel 2024: io, che scrivo e voglio difendere la libertà di ogni autore di scrivere tutto quello gli passa per la testa, ti dico cosa penso, con sincerità e mi espongo; ma tu cosa rispondi? Cosa rispondi a te stesso? Qual è la tua posizione davanti al mondo? La tua posizione, con sincerità. Enzo Siciliano della scrittura saggistica di Natalia Ginzburg ha detto:
C’è qualcosa di estremamente denudato, e anche di puro, nel modo di esporre e di raccontare di Natalia. A quel punto lì, il lettore si trova di fronte a una scelta: o immediatamente aderisce a quella situazione, o, se è abituato a un altro tipo di ragionamento e di atteggiamento nei confronti delle cose, viene… non viene schizzato via, si schizza via, si tira fuori lui. Si mette fuori: e a quel punto lì, ecco che viene fuori la bufera insomma. È così: e in questo senso Natalia è un caso nella letteratura e nella narrativa italiana di questa seconda metà del secolo – possiamo dirlo, ormai quasi compiuta – molto singolare e quasi unico.
Nell’articolo ‘Libertà’ la Ginzburg d’altra parte afferma:
Per me e per un gruppo di persone identiche a me, «libertà» vuol dire scrivere tutto quello che ci passa per la testa. Non è che questo appaghi la nostra sete di libertà universale. Questo però appaga un nostro individuale desiderio. Pensiamo che la libertà di scrivere e di pensare sia un diritto legittimo, uno dei legittimi e sacrosanti diritti umani.
Domenico Scarpa, nel saggio critico Gli ebrei, Natalia Ginzburg, il disumano, pubblicato nell’edizione Einaudi di Vita immaginaria, racconta le reazioni pubbliche e private, ‘in un arco dall’entusiasmo all’indignazione’, all’elzeviro ‘Gli ebrei’ della Ginzburg, pubblicato sulla «Stampa» a una settimana dalla strage alle Olimpiadi di Monaco, nel settembre 1972. In questo articolo, che è quello di Vita immaginaria più compromettente per l’autrice, la Ginzburg parla per la prima volta della propria origine ebraica, da parte di padre:
Quando ho saputo della strage di Monaco, ho pensato che avessero ammazzato ancora una volta quelli del mio sangue. L’ho pensato in mezzo a un mare di altri pensieri, ma l’ho pensato. Nel pensarlo, ho provato disprezzo per me stessa perché era un pensiero da disprezzare. Non credo affatto che gli ebrei abbiano un sangue diverso da quello degli altri. Non credo che esistano divisioni di sangue. Sono ebrea e ho avuto un’educazione borghese. Questa educazione borghese mi ha instillato alcune idee false. Devo avere in qualche modo respirato, nell’infanzia, l’idea che gli ebrei e i borghesi avevano diritti e superiorità sugli altri. Non mi è stato detto certo mai nulla di simile, in casa mia, e anzi mi è stata insegnata la parità di diritti fra gli uomini. Ma nelle strutture della mia educazione doveva essere presente un’idea di superiorità. Noi lottiamo tutta la vita per liberarci dai vizi della nostra educazione, ma i vizi dell’educazione ci restano stampati sullo spirito come dei tatuaggi. Nella nostra vita adulta, si passa il tempo a lavare questi tatuaggi dal nostro spirito.
Tralasciando le premesse e le conclusioni della sua opinione – così lei la chiama – sui fatti di Monaco, l’indagine e la descrizione che fa della sua reazione alla notizia, con quello che accade nel suo paesaggio interiore, senza omettere i pensieri più scomodi, è l’apporto luminoso del testo, quel momento di letteratura che porta alla luce le nostre ‘idee mostruose’, e ci ricorda che esistono.
Dopo che le abbiamo strappate e calpestate, noi dovremmo serbarne memoria e smetterla di pensare a noi stessi come ai figli del bene universale.
Che grado di libertà hanno oggi gli autori di mettere in crisi il mondo parlando sinceramente al lettore? Oggi il lettore è preparato – non solo come disposizione d’animo e d’ascolto, ma anche preparato perché maturo nel suo pensiero critico – ad accogliere le parole di uno scrittore che si espone? Un lettore adulto sa riconoscere il proprio assenso e dissenso, riuscendo ad essere consapevole delle ‘idee mostruose’ che ha assorbito per educazione in famiglia, cultura dominante, luoghi comuni, paure e spaventi? Nella presentazione di Vita immaginaria, scritta per il settimanale «Epoca» con il titolo redazionale ‘L’autore si confessa’, Natalia Ginzburg dichiara:
Essendo io un romanziere, trovavo assai strano sia scrivere per sottostare a un impegno, sia sentire con le persone che avrebbero letto ciò che scrivevo, un rapporto non già di natura buia e sotterranea quale è quello che lega chi scrive dei libri alle persone che li leggeranno, ma un rapporto invece in qualche modo esposto alla luce del sole, perché un articolo di giornale diventa immediatamente bersaglio di assensi e dissensi, e un libro segue invece strade lente e oscure.
Infine, Domenico Scarpa, sempre nel saggio critico Gli ebrei, Natalia Ginzburg, il disumano, riproduce questo stralcio di un articolo scritto dalla Ginzburg per il «Mondo», dopo l’assassinio di Pasolini:
Quando Pasolini viveva, e uscivano sui giornali i suoi articoli sull’aborto, sulla scuola dell’obbligo, sul fascismo, a volte trovavo che diceva cose vere, ma assai spesso ero in disaccordo con lui; o meglio, nei suoi articoli c’era quasi sempre un’idea o una frase che mi sembrava del tutto vera, ma rinserrata in un contesto che non potevo condividere (…) Leggendo i suoi scritti, e dandogli ragione o torto, era però sempre impossibile non pensare alla sua grande intelligenza.
Siamo ancora al bar della biblioteca, è sabato mattina: un mese e sarà primavera. Ho letto qualche libro della Ginzburg, ma posso dire di conoscerla solo relativamente a un arco di una decina di anni, tra il ’63 e il ’74 – e assai spesso sono in disaccordo con lei, e dandogli ragione o torto, mi è comunque sempre impossibile non pensare alla sua grande intelligenza.
A proposito, la scorsa estate, ma all’inizio, ho studiato la storia della biblioteca della città in cui vivo e un po’ di storia generale sulle biblioteche civiche, in Italia e nel mondo. Dovevo scrivere un testo che facesse da cornice al saggio di danza di un’amica e alla fine ho scelto di dare voce ad altri autori, bibliotecari. È stata bibliotecaria, e poi insegnante a lungo, Lalla Romano. L’ho scoperto studiando la casa editrice Einaudi attraverso I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero. Quando nel 1944 Pavese le affidò la traduzione dei ‘Tre racconti’ di Flaubert, la traduzione di quella prosa essenziale la aiutò a scoprire che «la narrativa vera, quando è libera, è poesia pura. La poesia è una scrittura che non può essere ritoccata». Quando avrò concluso il mio studio su Natalia Ginzburg, forse mi dedicherò a Lalla Romano. Grazie all’intuizione cristallina di Lalla Romano posso dirmi serenamente che l’incipit di ‘Estate’ è una poesia, una canzone.
Spigola è animata da curiosità. Rianimata da quello che trova in acque limpide, in profondità, a caccia di preda-pensieri. Un artista le ha detto: “Hai provato a scavare in alto?”. Spigola ha visto la luce.