Le cose possono
Sono circa le 10 di mattina quando noto l’ingresso di un parco: fa freddo, molto freddo, il vento è leggero ma tagliente: ho freddo alle gambe, alla faccia, alle mani che sono dentro le tasche, dentro i guanti.
Mentre sto per varcare la soglia qualcosa mi trattiene: è la paura di non sapere dove sto andando – dove sto andando con questo freddo inospitale? – se ne vale veramente la pena. Entrare in un luogo vuol dire tante cose: non esiste mai una separazione, io-che-entro-nel-luogo-fine, è sempre un dialogo.
Rallento, faccio spazio tra un passo e il successivo, entro in una dimensione che non è solo fisica.
È uno di quei momenti in cui mi concedo di perdermi, di immergermi, di attivare i sensi ed incontrare le cose, sapendo di non sapere. Sono in bilico e poi cado – ma è una caduta dolce – all’indietro: mi richiudo, ripiego, riapro, mi abbandono con una fiducia che non conosco abitualmente. Scivolando, entro nelle cose.
Il parco si estende oltre le mie aspettative: per stare più tranquilla cammino lungo il perimetro e questo mi permette di avere una visione d’insieme. Incontro un cane, un secondo cane, la persona che li porta a passeggio, un uomo che corre, una persona che si avventura verso il nucleo del parco, lungo un sentiero secondario.
Quando ero piccola immaginavo la vita con una forma di spirale ad angoli retti: ogni angolo segnava un momento di passaggio: tiri il dado e vai avanti oppure torni indietro. Ci sono voluti anni perché quel disegno perdesse i contorni per rimanere solo un ricordo. Oggi quando penso alla vita la immagino come un ricamo: tenere uniti i punti, fare e disfare, andare avanti, affidarsi al disegno anche quando sembra non avere senso.
Mentre cammino indugio su un pensiero: potrei vivere ovunque, potremmo vivere ovunque.
Un asino vive in un prato accanto alla ferrovia, un cavallo vive in centro città, un albero in un parco, un merlo sulla palma in giardino. Ci sono luoghi in cui si è e luoghi in cui si esiste e i secondi sono casa più dei primi.
Di nuovo, in questo parco senza nome, per un attimo mi sento nata ieri: c’è una vita nell’altra vita, una me che contiene un’altra me: una matrioska in formato economico il cui compito è quello di tenersi insieme, ognuna con le sue capacità.
I punti del ricamo sono immagini che si accendono a intermittenza.
Un vassoio di pasticcini che fa il suo ingresso trionfale in una stanza dalle parenti bianche,
la desolazione di un luogo che poi diventa casa,
un lungo viaggio verso casa, quell’altra, quella dentro,
un taxi che è anche un carro funebre,
i film di martedì,
le gite di sabato,
le brioche di cemento di domenica,
l’istante in cui guardo mia sorella crescere, di notte, in silenzio,
l’umanità, senza compromessi.
Poi una luce, un’alba lunghissima, che compatta le cose, ne sfuma i confini e annulla le definizioni.
Le cose possono anche andare bene?
Sono quasi all’uscita del parco, mancano pochi passi al cancello, mi giro e torno indietro: due alberi si accarezzano con i rami e attirano la mia attenzione. Li fotografo. Sono gli abitanti di un luogo grigio e uniforme, freddo ma pieno e per questo accogliente.
In piedi su un muretto, il mio sguardo corre verso il punto più lontano, attirato da un bagliore che è solo immaginario, eppure esiste: l’ultimo anno mi ha dimostrato che l’amore non si divide, ma si moltiplica, e che la strada verso casa è sempre illuminata.
Le cose possono anche.
Fotografie di Chiara Campi
Alborella è un pesce gregario: le piace la compagnia delle altre Alborelle. Le piacciono anche i tramonti sul Lago, il cibo sano e genuino, l’arte in tutte le sue forme. E, ogni tanto, le piace esplorare in solitaria, qualche volta cambiare strada e svelare, curiosa, nuovi angoli di cielo.