La potenza dell’inquietudine e l’arte dell’insoddisfazione
Giovedì sera di ottobre, ora tarda, cinema agé di provincia. Di quelli pieni di cose impolverate, un bigliettaio con le occhiaie, un po’ sorpreso della porta che si apre, due persone in sala [“Si prega di sedersi nel posto assegnato, le poltrone sono numerate”] e un indeciso venditore di popcorn, stanchi anche loro.
Ripensandoci, non avrei potuto cercare di meglio. In quel luogo, in quel momento, L’uomo che uccise Don Chisciotte mi è sembrato così vero, così vicino, così maledettamente fuori posto, come lo eravamo tutti, popcorn compresi. Come se ci stesse dicendo che in realtà noi si sarebbe dovuti essere lì venticinque anni prima (tanti ne sono serviti a Terry Gilliam per chiudere il progetto Quixote).
Sono tanti, venticinque anni, e sono tante le cose che possono cambiare. Sono così tanti che alla fine il risultato è presentato in pompa magna come la fatica di una vita – e non è per nulla scontato che questo significhi il capolavoro. Comunque sì, per me è stato un capolavoro.
Non avendo bastevoli competenze cinematografiche, chiarirò che ne ho amato la poesia, il folle volo, il disperato sforzo. E l’inquietudine. Dopo un riuscito documentario (Lost in La Mancha) con cui ha detto al pubblico: “Signori, ecco l’incredibile quantità di scalogna che si è abbattuta sul mio set”, Terry Gilliam ha trasferito nella pellicola un quarto di secolo di frustrazione, di ricerca, di ossessione per quel personaggio divenuto così inafferrabile da essergli entrato nella pelle. Tanto da non capire più chi fosse il regista, chi il protagonista, chi l’ombra letteraria.
Sui titoli di coda ho pensato a questo: alla potenza dell’inquietudine e all’arte dell’insoddisfazione. A quegli autori che hanno perso il sonno, visto le ore scivolare lente senza procedere di una virgola, l’inchiostro servito più a cancellare che a creare. Alessandro Manzoni impiegò diciannove anni per venire a capo del suo romanzo I promessi sposi (“Scrivo male a mio dispetto; e se conoscessi il modo di scriver bene, non lascerei certo di porlo in opera” dirà nella seconda introduzione, dopo già parecchi mesi di fatica); di Tolstoj si racconta che la moglie copiò per sette volte le prime stesure di Guerra e pace; quasi trent’anni occorsero anche ad Ariosto per il suo Furioso. Senza contare le opere incompiute o abbandonate.
È fuggevole la realtà, è un continuo divenire: uno sguardo attento e aperto al mondo non smetterà mai di coglierne cose nuove, significati che si sommano, indizi che si svelano. Eccola lì l’inquietudine. L’insoddisfazione viene invece da chi crea e le sorrido con grande comprensione quando scopro che ha a che fare con la percezione di sé attraverso gli altri, del non bastare a se stessi. Le sorrido, come se potessi posare la mano su quella mano nervosa e guidarla in quella parola che non sorge. E darle un attimo di pace, e dirle che poi sì, a un certo punto andrà tutto bene. Forse.
Sogliola ha due facce. Una fruga sul fondo, dove l’acqua finisce e ricomincia la terra. All’altra non bastava un occhio solo, per tutto quel cielo di mare. Sogliola è una giornalista con gli occhi spalancati sulla poesia.
PODCAST > L’articolo “La potenza dell’inquietudine e l’arte dell’insoddisfazione” letto da Letizia [Sogliola].