Eppure ci siamo illusi, un giorno
Di copyright si discute ampiamente, nel mondo del giornalismo, in seguito all’approvazione della riforma europea. C’è tuttavia un tema di non secondaria importanza che finora è stato affrontato solo in maniera, va detto, piuttosto pigra e senza una vera e seria riflessione che tenga conto dei cambiamenti (epocali, si dice in questi casi) che il mestiere ha subìto, più che fronteggiato, negli ultimi anni.
Lo stesso del resto – e si sta parlando della qualità del “prodotto” giornalistico e per quanto ci interessa in particolare dell’evoluzione del testo e della parola – era già capitato in passato, quando spuntarono rivoluzioni tecnologiche del calibro del telegrafo e del telefono. Di quelle si legge oggi nei manuali che marcarono profondamente il territorio della parola scritta per i giornali. Che il web sia solo l’ultima delle rivoluzioni è cosa nota. Che la stampa sia cambiata negli ultimi vent’anni anche. Come, tuttavia, e come possa sopravvivere è un altro paio si maniche.
Il giornalismo italiano, in particolare, ha sempre avuto una certa ambizione di letterarietà (lo dimostra il lungo elenco di nomi di autori, poeti e scrittori, che hanno prestato le loro penne anche alla carta più fugace). Questo anelito all’immortalità ci ha lasciato esempi mirabili di cronache scritte, pur nella contingenza, con grande attenzione al valore della parola scritta (si pensi, per citarne solo uno, a certi lavori di Dino Buzzati, ai suoi servizi dal Giro d’Italia, per esempio).
Ma in questo frangente in cui sul soffermarsi vince la velocità ha ancora senso pensare al giornalismo come a un mestiere che non abbia solo a che fare con il (certo fondamentale) lavoro preliminare di raccolta di notizie e vaglio delle fonti da riversare poi in un testo frutto di un atto più di compilazione che non di scrittura nel vero senso del termine?
E prova ancora il lettore una certa esigenza di qualità della parola o ciò che gli importa è solo l’hic et nunc della notizia, in qualunque modo gli sia riferita? Il grande privilegio del giornalista è la possibilità di attingere per dare inchiostro alla sua penna, alla estrema varietà dei casi di cui è fatta la realtà in cui siamo immersi. Dopo che egli per primo vi si è immerso. Un testimone, per farla breve, con la necessità di raccontare, di farsi capire. Come? Con il suo stile, con la sua firma, con la sua parola.
A mo’ di consolazione va detto che il dibattito ha una certa età. Era il 1930 quando a Milano l’editore Treves pubblicava un libro non per caso intitolato “Questo mestieraccio”. Una raccolta dei migliori pezzi (l’anelito all’immortalità…) scritti da un’allora celebre firma delle maggiori testate nazionali, Paolo Monelli.
Il vero tesoro di quella antologia giornalistica sta nell’introduzione, dove Monelli difende con un misto di orgoglio e umiltà il suo “mestieraccio”.
Eppure ci siamo illusi, un giorno, di creare un «genere»; di dar forma a un nuovo tipo di scrittore: moderno, vero, aderente alla vita, capace di superar gli antichi miti, ma capace di scorgere i nuovi che sorgono e di spiegarli ai loro inconsci creatori. Scrittore con fantasia, ma non d’invenzione; devoto alla lingua e allo stile, ma non schiavo delle tradizioni, dei modelli, dei luoghi comuni; curioso non di sé o delle sue reazioni, ma delle folle, dei luoghi, dei cieli. Lo scrittore «che si scomoda»; che vive con la gente, pensa con la gente, soffre con la gente, e della gente vuol essere solo interprete o ricordatore, animatore o consolatore; lo scrittore che ricorda, non che descrive; che non inventa casi eleganti, ma scopre la realtà; che scrive magari in prima persona, ma pensa in terza; tutt’al contrario del romanziere che scrive in terza persona ma pensa e opina e argomenta soltanto egocentricamente.
[…] E quando andiamo dall’editore con il nostro manoscritto fatto di tante colonnine ritagliate e incollate, l’editore lo accetta perché ci vuol bene, ma ci ammonisce: «E quando mi porta il romanzo?»
(P. Monelli, Questo mestieraccio, Treves, Milano 1930)
*Immagine di copertina di Jan Kahánek su Unsplash
*Fotografia di Toa Heftiba su Unsplash

Sogliola ha due facce. Una fruga sul fondo, dove l’acqua finisce e ricomincia la terra. All’altra non bastava un occhio solo, per tutto quel cielo di mare. Sogliola è una giornalista con gli occhi spalancati sulla poesia.
Prossima pubblicazione: giovedì 20 settembre. Continuate a seguire l’onda!
PODCAST > L’articolo “Eppure ci siamo illusi, un giorno” letto da Letizia [Sogliola].