Occhi negli occhi
*di Paolo Bianco e Chiara Forgillo //
Occhi negli occhi.
Un flusso di immagini scorre rapido. Le dita si muovono veloci sugli schermi. L’occhio afferra i contorni, mentre i dettagli sfuggono via, risucchiati in un vortice di pixel. Quegli schermi sono gli specchi odierni, fatti di mille frammenti compositi. Gli occhi si muovono sulla loro superficie piatta, con l’illusione di cogliere la profondità di un messaggio, di un contenuto, di una foto. Ma lo sguardo rimane fermo e scivola sul piano, lungo lo spazio delimitato da una cornice. L’attenzione è ristretta a brevi e fulminei attimi. Si rimane abbagliati da un’impressione luminosa che arriva diretta. Gli occhi, però, non riescono a penetrare, a scandagliare le pieghe di ciò che li ha così colpiti e a esplorare i livelli di verità che si sovrappongono e si stratificano. Il punto di vista è circoscritto in un rettangolo, come un paraocchi che impedisce di andare oltre e che ci mostra solo brandelli di realtà.
Pur riconoscendo il ruolo centrale che la tecnologia ha assunto nella nostra contemporaneità, migliorando, in taluni casi, anche la qualità delle nostre vite, e pur ritenendo ovviamente irreversibile la rivoluzione digitale ancora in atto, noi adulti, genitori, comunità educante non possiamo esimerci dal chiederci quale sia la nostra responsabilità: a quale orizzonte si rivolge il nostro sguardo e quello dei nostri figli? Abbiamo occhi per i nostri bambini? Qual è il nostro compito educativo? Siamo veramente consapevoli delle conseguenze che comporta l’accesso smodato, o addirittura incontrollato, a questi media, sin dalla più tenera età? Davvero ignoriamo che il mondo interiore dei soggetti in formazione non sia ancora pronto ad affrontare il portato psico-emotivo di queste esperienze? Cosa cerchiamo noi adulti nello schermo? E cosa vi cercano i nostri figli?
Nella costruzione della personalità lo sguardo occhi negli occhi è importante, poiché il bambino impara a identificare positivamente la propria immagine, proprio quando il genitore sa restituirgli fiducia e approvazione, accogliendolo e riconoscendolo per quello che è realmente. Questi sguardi reciproci sono essenziali, in quanto costituiscono il fondamento della nostra identità: il bambino ha quotidianamente bisogno da parte dell’adulto di queste conferme, perché è proprio guardando l’altro che noi impariamo a distinguerci dall’altro. Se tra adulto e bambino si perde il contatto visivo, la relazione si sfilaccia e le emozioni non possono essere identificate e accolte, in sé come negli altri. Il terreno su cui far maturare le competenze sociali diviene arido e sterile.
I bambini che ancora non sanno camminare, seduti nel passeggino, hanno già il cellulare in mano; le famiglie al ristorante o in sala d’attesa “li tengono buoni” tramite schermi accesi; i ragazzi e i bambini chiusi nelle camerette rimangono ore a video-giocare senza controllo o a guardare vuoti video. Ma i bambini da sempre chiedono il perché delle cose del mondo e interrogano i nostri occhi adulti. E se un giorno, abbacinati dalla luce di quello schermo-specchio, smettessero di farlo?
L’accedere già dalla prima infanzia a tali strumenti e il passare ore e ore in maniera indiscriminata davanti a smartphone e tablet rappresentano un fattore di rischio rispetto alla deflagrazione di alcune attitudini cognitive, quali: ascolto; tempi di attenzione; memoria; capacità di deduzione; comprensione di messaggi, sia orali che scritti; immaginazione, qui intesa non soltanto come sinonimo di fantasia, ma anche come la facoltà di “costruirsi autonomamente un’immagine mentale”. Viceversa, non farlo si prefigura come un fattore di protezione: un elemento, cioè, che insieme agli altri, può favorire maggiore equilibrio nella formazione. Molti sostengono che il digitale alleni diverse competenze. Non lo neghiamo, ma l’osservazione professionale dei bambini e dei ragazzi nel contesto scolastico rivela che, rispetto al passato, ci sia maggiore bisogno di semplificare contenuti, esplicitare continuamente le consegne nei compiti, ribadire più volte in rapporto 1:1 anche semplici istruzioni orali. Il cambiamento delle modalità di apprendimento di bambini e ragazzi nel corso dei decenni è naturale, ma si sta oggi assistendo a una preoccupante perdita di quelle che possono essere definite abilità fondamentali.
Gli occhi rivolti allo schermo perdono la brillantezza, appaiono stanchi e spenti, anche se sono quelli dei bambini. Nella loro crescita, i corpi si incurvano su se stessi, con le spalle concave, nella postura chiusa di chi ha il capo e il collo costantemente chinati su uno schermo. In adolescenza i ragazzi non smettono di aver bisogno di sguardi, non solo quelli del proprio nucleo familiare d’origine, da cui dovranno emanciparsi, ma soprattutto quelli dei pari con cui confrontarsi per avviare quella maturazione che li condurrà all’età adulta. Il mondo virtuale per loro può essere estremamente attrattivo perché dà l’illusione di moltiplicare le possibilità di scoprire se stessi ma può essere, nello stesso momento, estremamente crudele, duro, spietato e capace di annientare le personalità in divenire. I più fragili e i più insicuri possono sprofondare nel disagio e, infine, soccombere.
Gli occhi nello specchio sono occhi grigi e senza scintilla vitale. Sono occhi velati di chi reitera sempre la stessa domanda: “Ci sono?”. Esprimono la richiesta disperata di un riconoscimento. Ma la risposta che lo specchio-schermo restituisce è debole. Si tratta di un puro riflesso di quello che, invece, dobbiamo andare a recuperare e coltivare su altri piani di realtà.
Educare al sentire.
“Sta lì tranquillo”, dicono una madre o un padre che cercano di trovare la quadra della gestione quotidiana della famiglia, “così non si caccia nei guai” e, in quel momento, non riescono a percepire l’avvicinarsi di un pericolo più grande e minaccioso, che non è (solo) la diffusione di immagini e dati sensibili, non è (solo) il bullismo cibernetico, non è (solo) l’esposizione alla violenza (fisica, morale, sessuale, ecc.), non è (solo) la dipendenza all’utilizzo dei social media alla stregua di una sostanza stupefacente, ma è soprattutto la programmatica costruzione di un individuo non (più?) capace di attraversare consapevolmente la complessità del presente, avvezzo com’è a scivolare sulla superficie.
Spicca, in questo processo di perdita di sensibilità nei confronti di ciò che ci circonda, la limitazione delle capacità empatiche nei confronti degli altri. Diversi studi dimostrano che l’utilizzo protratto nel tempo dei dispositivi elettronici riduca l’empatia. Come in altri casi, gli esempi possono essere molti e, se siamo disposti davvero a vedere, sono sotto gli occhi di tutti: l’assuefazione alle immagini violente, come quelle di alcuni videogiochi, può diminuire la competenza a percepire il dolore degli altri nel mondo reale. Più in generale, per chi abusa di questi strumenti può risultare complicato riuscire a calarsi nei panni dell’altro, a comprendere che anche l’altro possa provare emozioni e a riconoscere quali: la comunicazione attraverso tastiera, nascosti dietro lo schermo, in qualche modo protetti dagli sguardi altrui, può influenzare l’affettività e inibire i rapporti di amicizia, di amore, di collaborazione e di compartecipazione. Pure il linguaggio per descrivere i panorami emotivi si impoverisce e si riduce a essere iconico, semplificato mediante una manciata di emoji.
L’esposizione prolungata a questi strumenti e a questa tipologia di contenuti porta a vivere sempre, in modo totale, la percezione delle proprie emozioni, quasi lambendo, in ogni momento, il massimo limite possibile. Appena il precedente contenuto mediale viene giudicato come noioso o poco interessante, si passa immediatamente al successivo, così da darci la possibilità in tempi strettissimi di tornare allo stato di pienezza emotiva al quale aspiriamo.
Di fronte alla reiterazione della stimolazione, qualsiasi relazione reale, persino amorosa, può essere vissuta come deludente, ovvero incapace di portarci sempre e in modo continuo a una scarica di piacere sempre maggiore. Abbiamo il continuo bisogno dello schermo-specchio, di prolungare l’esposizione a esso nel tempo, il più di frequente possibile, poiché il mondo reale non è in grado di darci sollecitazioni altrettanto coinvolgenti nell’immediato e già pronte all’uso ma, anzi, ci mette di fronte a frustrazioni da cui non possiamo sfuggire semplicemente con il movimento di un dito.
Parlando con i più giovani, la distinzione tra reale e virtuale non ha senso. Serve a noi adulti per spiegare qualcosa che ci sfugge e che, con le nostre categorie di pensiero, non riusciamo davvero ancora a cogliere di questa commistione tra vita analogica e digitale. Per loro non c’è quella differenza che qualcuno di noi si ostina a voler mantenere. Sei proprio boomer, direbbero. Ma vorremmo poter riuscire a comunicare che non si tratta della nostalgia romantica dei bei tempi passati, di quando ci si incontrava in piazza o si giocava per strada. Si tratta piuttosto di avere cura di quella domanda fatta allo specchio: “Ci sono?”.
La risposta, per noi, non può essere: “Sì, ci sono”, nel senso di un esserci smaterializzato in tanti pixel inafferrabili dentro uno specchio. La risposta a cui tendere è nell’esserci, per davvero, come corpo, pensiero e anima e nel diventare presenza presente nel mondo, specifica, incarnata, viva in un luogo e in un tempo determinati, con uno scopo e un obiettivo, nell’essere proiettati nella vita che ci interroga di continuo e radicati nell’incontro con l’altro. Tutto questo è compito educativo a cui non ci si può sottrarre.
Gli schermi restituiscono una verità manipolata, mediata, costruita, ritagliata, condizionata e condizionante, semplificata, ma affatto semplice. Ma non sono l’unica verità che vale la pena di indagare, altrimenti gli occhi fissi sullo schermo divengono il solo filtro attraverso cui interpretare qualsiasi fenomeno della nostra vita.
La responsabilità educativa sta nell’ampliare lo sguardo e le possibilità per i più giovani, affinché acquisiscano molte lenti da indossare e sta nel fornire l’accesso a diversi mondi, ovvero le chiavi di diversi spazi in cui sperimentarsi.
Tornare a essere sensibili al reale, ovvero educare al sentire, significa accompagnare noi stessi, i bambini e i ragazzi nello stare nel presente, percependo le variegate sensazioni che il mondo può offrire, considerando l’altro come soggetto e non come oggetto, ammirando orizzonti di meraviglia, coltivando le emozioni come giardini, decisi nell’andare oltre lo specchio magico.
Qualche consiglio di approfondimento per genitori (e non solo):
- Aglieri M., Carenzio A., Media e dintorni. Utilizzo intelligente in tempi multimediali, Edizioni San Paolo, Milano, 2011.
- Barrillà D., I superconnessi. Come la tecnologia influenza le menti dei nostri ragazzi e il nostro rapporto con loro, Urrà Feltrinelli, Milano, 2018.
- Chapman G., Pellicane A., Generazione touch. Come educare i figli allo sviluppo delle relazioni sociali nell’era digitale, Hoepli, Milano, 2016.
- Ciardi N., Rijtano R., Con lo smartphone usa la testa. Difendere i tuoi figli dai pericoli del web e dei social, Sperling & Kupfer, Milano, 2018.
- Cozza G., Dis-connessi. Quando la comunicazione digitale intralcia quella reale, Il leone verde, Torino, 2016.
- Pellai A., Tamborini B., Vietato ai minori di 14 anni. Sai davvero quando è il momento giusto per dare lo smartphone ai tuoi figli?, DeAgostini, Milano, 2021.
- Randazzo A., Bambini psico-programmati. Essere consapevoli dell’influenza della pubblicità, della TV, dei videogiochi, Il leone verde, Torino, 2007.
Paguro Bernardo. Come ogni persona comune, lascia il suo guscio precedente e, una volta cresciuto, individua un nuovo guscio più grande. Rinasce e si trasforma continuamente, attraversando diversi cicli di vita e tentando, nel corso del tempo, una sempre difficile evoluzione. Benché sia anche chiamato “l’eremita”, se nutrito in modo regolare, convive con tutti gli esseri umani.
Argonauta. Da dentro una conchiglia di carta, che è cappello, culla, riparo, nave e casa, guarda fuori. Ogni tanto, con un tentacolo, le sembra di afferrare qualcosa. Ed è allora che sente il canto dolcissimo di una maga e conquista brandelli di cielo d’oro, caduti nel mare blu.