La quarantena
Le finestre del prefabbricato si colorano di arancio due volte al giorno: filtrano l’alba che attraversa il capannone, si scontrano contro il tramonto, affacciato a ovest.
Venerdì, tardo pomeriggio, il settimo giorno.
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La notizia mi coglie in redazione e mi accompagna sulla strada del ritorno. Non è difficile seguirne il contagio: interrompe la teoria di teste chine, nel metrò. Sguardi si sollevano preoccupati, bocche cucite nelle pieghe delle sciarpe, mentre la settimana galoppa come sempre. Il virus è qui.
Ed è come l’inciampo che mette fine a una corsa. L’accidente che sconvolge la linea di equilibrio, l’istante di smarrimento: mentre si cade si va, prima di toccare terra. L’ultima festa prima della quaresima globale, le ultime mani strette.
Anche il pezzo che leggete è stato travolto e necessariamente stravolto, purgato da ogni considerazione che era della prima ora e che non aveva previsto la pur ovvia fine.
All’inizio è stato l’estremo tentativo di afferrarsi a qualcosa, di insistere anziché abbandonarsi al volo di un corpo che cade: è la città che ha finto di non fermarsi, che ha incolpato le urla delle cassandre e dei giornali, che ha mostrato un volto inutilmente sbarazzino negli ultimi giorni di sole.
Ma questa volta il confine per la libertà – o per quella che finora avevamo chiamato tale – si è fatto ancora più stretto, e profondo il solco: non è un dovere a scavarlo, ma un diritto.
La città, in letargo tardivo, si è affannata a cercare l’essenziale, frugando tra lo scontato. Non è semplice accettare di cadere, accettare la botta, accettare il dolore, accettare di interrompere. È necessario, questo sì.
Ecco infine la città, vietata nei suoi spazi fisici, accalcarsi su quelli virtuali. Dove la folla moltiplica un contagio, virtuale certamente, ma velenosissimo; che non ammette debolezza, non ammette paura, che separa e non unisce. Una calca innamorata del proprio virtuoso e perfetto ritratto social (piglio da guerriero e indice puntato) in un chiasso generale che soffoca le voci vere e riempie di nulla. La quarantena richiede sobrietà. «Spegni il telefono», ha detto mia figlia ieri sera.
Nonostante gli sforzi, la preoccupazione era arrivata fin sotto le mura del castello che disegnava tranquilla. «Sai già tutto», ha aggiunto. Era vero: non c’era là dentro nulla più di quanto non fosse necessario, non fosse essenziale, non fosse opportuno, non fosse già noto.
Così, la mia quarantena sarà vissuta anche online: farò attenzione a evitare gli assembramenti, le folle, i raduni. Mi informerò senza morbosità, avrò cura di scegliere di non leggere, di non guardare, di non cliccare ciò che è raccontato sulla pelle altrui, ciò che giudica senza proporre, che alimenta il chiasso, il panico e il livore inutile. Mi premurerò di non condividere, di non amplificare, di non dare in pasto alla banalità dell’algoritmo la complessità di questo momento. E no, non mi ritiro in una torre d’avorio: questo è il tempo che dedico al futuro che scriveremo poi. A ciò che veramente conta, anche disegnare un castello che non esisterà.
Sogliola ha due facce. Una fruga sul fondo, dove l’acqua finisce e ricomincia la terra. All’altra non bastava un occhio solo, per tutto quel cielo di mare. Sogliola è una giornalista con gli occhi spalancati sulla poesia.
*In copertina: fotografia di Letizia Rossi
PODCAST > Il racconto “La quarantena“, scritto e letto da Letizia Rossi.