Confessione n.2
“È passata una settimana dal cosiddetto ponte dei morti, dai cimiteri affollati, dai fiori in mezzo al grigio. E sì, anch’io sono andata a ricordare o a salutare, sono passata a trovare, qualche mio affetto da tempo partito per un viaggio dalla destinazione a me ignota. No, non accetto suggerimenti e consigli in merito a questa destinazione, mi sta bene che rimanga ignota e avvolta nel mistero; mi interessano solo i voli immaginati dalla letteratura, ma non credo a nessuno, mi piace immaginarli e basta. Questa consuetudine di credere per forza e ostinatamente a qualcosa proprio mi sta stretta.
Il cimitero. Non sono per niente un’esperta in materia, non ho fatto studi sulla sua evoluzione nel corso della storia o un approfondimento sulle differenze di questo luogo nelle varie culture del nostro Mondo. Ma sarebbe oltremodo interessante, e lo inserisco a diritto nella mia wish list delle cose da fare… prima che sopraggiunga la morte, giustappunto.
Su questo Pianeta, la forma di qualcosa è un pensiero tradotto in materia, e così l’estetica del cimitero è strettamente connessa al modo che ha una cultura di vivere il lutto, di elaborarlo, integrarlo – o di metterlo a tacere, renderlo un tabù. L’ho già detto: approfondirò.
Ma anche senza avere alle spalle uno studio antropologico sul tema, voglio portare agli occhi questa semplice domanda su questo nostro luogo comune, che prima o poi ci toccherà tutti visitare e forse addirittura abitare: cos’è il cimitero?
Cos’è il cimitero? Siete così convinti di conoscere la risposta? Riformulo la domanda in questo modo: pensate davvero di sapere cos’è un cimitero? Qualunque sia la vostra opinione.
Se la vostra risposta non è preceduta da esitazione, da un filo di dubbio, da un lieve timore, da qualche rossore, ecco, allora costringetevi a fermarvi e a pensare, un po’ di più, ancora, magari per qualche anno. Perché il cuore è sacro, e le risposte superficiali una violazione.
L’estetica del cimitero non è accessoria, prestarle attenzione non è un atto di secondaria importanza, perché la forma di quel luogo, quando lo percorriamo, fisicamente o mentalmente, influenza il nostro modo di vivere i lutti, di pensare a quel ridiventare cenere – e nessuno di noi sfugge -, e di conseguenza condiziona strettamente il nostro modo di vivere e godere della vita, o no. È una matita nascosta dietro alle orecchie che disegna ogni giornata senza che neanche ce ne accorgiamo.
Durante questo ponte dei morti – e la parola ponte in questo caso sta lì in modo direi magico e potente – sono andata al cimitero accompagnata da un’amica e dal suo bambino di 4 anni, il quale per sua fortuna non è solito frequentare quel luogo. In modo candido, all’uscita, dopo aver osservato tutto con quello sguardo scevro da pregiudizi che solo i bambini possono avere se non vengono da subito imbottiti di idee non loro, ha detto:
Ma perché ci sono i fiori? Ma perché ci sono le foto? È un po’ buio questo posto, mi fa venire la tristezza.
Ed ecco che, grazie a un bambino, anch’io non posso non chiedermi tutti quei perché e accettare ancora passivamente, come fosse un dato inamovibile della realtà, che i luoghi comuni di sepoltura, almeno in Italia, debbano necessariamente essere popolati di marmo freddo e grigio o rossastro, popolati da fiori che quell’invasione di materiali freddi e senza vita portano già alla morte, come fiori sacrificali; e poi quegli angeli bloccati a terra, con le ali che sembrano spezzate e inefficaci e fanno paura e generano un’inquietudine che va ben al di là del lutto, e si dice poi che sono lì per dare sollievo; e la foto sulla tomba che riassume in un unico scatto una vita e il suo spirito, e a volte rende ancora più morto e sepolto il defunto, privato delle sue meravigliose sfaccettature, bloccato in un sorriso o in una posa rigida.
Forse, e lo dico con timidezza, il problema è che al cimitero non c’è Arte, o non c’è più. Voglio dire che i cimiteri mi sembrano invasi da tanta pseudo-religione, ma assai poca spiritualità; assomigliano a un girone dell’inferno, senza via di scampo per un pensiero più Vasto, per un pensiero Infinito.
E prendete la frase sopra così, per come vi risuona, per come la capite, non starò qui a spiegarla che ci vorrebbe un tempo ora non disponibile. Ma quello che mi chiedo è: che cosa vogliamo comunicare con l’estetica di quel luogo comune? Che cosa si vuole dire della morte e dei morti? Si vuole creare un ponte? Com’è quel ponte? Che cosa si vuole trasmettere a chi è ancora in vita e vive il lutto e ha bisogno di conforto? Ci va di abitare ancora in questa narrazione perché ne riconosciamo un senso o forse si può ipotizzare di cambiare registro linguistico?
State imparando a conoscermi, a me le risposte interessano relativamente. Ma le domande, le domande, quelle sono vitali e vivifiche, perché creano un movimento interiore senza il quale ci si seppellisce ancora prima della sepoltura. Posso dire che dal canto mio vorrei poter sostare in un cimitero, su una panchina in legno, sotto a un albero, o a più alberi, godendo di un silenzio pieno di vite che mi hanno preceduto, conosciute o meno. Sedermi lì per provare ad ascoltare meglio i pensieri sulla vita e sul suo senso tutto da costruire, giorno dopo giorno. Magari essere allietata da qualcuno che si siede accanto a me e con me condivide il silenzio, o magari chiacchiera. E non fraintendetemi: non penso che bisogna scappare dal buio, dalla tristezza, dalle lacrime, dall’inquietudine, dal senso di morte. Ma ci sono tanti altri modi di affrontare il senso di mancanza o spaesamento di fronte al mistero, che magari non ci siamo ancora dati la possibilità di immaginare.
Senza spoilerare alcunché, ma strizzando l’occhio a chi conosce questa superba serie tv, tra le più belle e sul podio tra le tante che ho visto e vedo: una panchina come quella di After Life, dove incontrare talvolta una signora come Anne. Un cimitero come un luogo di incontro di vite, presenti, passate, future. Troppo?
Concludo questo mio secondo post proprio con una domanda, con una ripetizione: pensiamo davvero di sapere cos’è il cimitero? Pensiamo davvero di sapere?”

Pesce Limanda limanda. Corpo piatto. Occhi piuttosto grandi. Bocca piccola con mascelle leggermente prominenti. C’è chi beve per dimenticare. Io scrivo per domandare. Non sono una persona, sono un personaggio, ora più che mai, pubblico – e vivo.
*Fotografia di Photo by Francesca Grima on Unsplash
PODCAST > L’articolo “Confessione n.2”, di Kajsa Karvat [Limanda limanda], letto da Comiale [Spigola].