Un’immagine / Il fiume
“(…) vorremmo seguire l’immagine con lo sguardo.
Ci mettiamo dunque in movimento: emozione.”
Georges Didi-Huberman, L’immagine brucia
Accanto a quelle del sogno esistono altre immagini, che si producono in veglia. Sono delle immagini guida che col tempo cambiano forma. Il loro mondo è il silenzio.
*
Una psicoterapeuta che vedo da anni un giorno mi dice: “Non posso più curarla, ha bisogno di qualcosa di diverso. Posso darle il nome di qualcun altro”.
Ho bisogno di qualcosa di diverso.
Ho bisogno di entrare in uno studio con un divano, una poltrona, una libreria e soprattutto un lettino – uno studio che sta in un punto preciso del centro di Milano, sesto piano, stabile borghese a pochi passi da Piazzale Loreto, dal lato del brulichio della Stazione Centrale.
Il portiere dopo un po’ mi riconosce, lo capisco dal modo in cui ci salutiamo.
Buongiorno, come mi trova oggi?
L’ascensore ha un odore di legno, cuoio, un sottofondo di camicie stirate. Gli appartamenti possiedono tutti un doppio ingresso, qui si vive con molta compostezza.
Ho bisogno di qualcosa di diverso: mettermi a pancia in su e aprire la bocca, dopo aver chiuso gli occhi.
Il dottore è gentile, colleziona gufi di ceramica. Le pareti che guardo dal lettino sono piene di crepe sottili simili a ruscelli su una cartina.
“Dica tutto quello che le passa per la testa; anche se pensa che io sono grasso, dica che sono grasso, dica quello che vuole”. Mi muovo dentro ai confini delle buone maniere. Ma la libera associazione è un impasto di parole che a un certo punto iniziano a sgorgare.
Non so se questa psicoanalisi avrà una fine o se sia davvero infinita. Allo stesso modo non posso dire se funzioni. Tuttavia dentro il movimento che fa la psicoanalisi posso immaginare che cosa significhi che “la vita funziona”. Probabilmente è un imbroglio, eppure provo un interesse vivo verso questa illusione, soprattutto per via dell’immagine che un giorno è comparsa.
*
“Chiuda gli occhi. Che cosa vede?”
Per rispondere a questa domanda guardo dentro al buio, frugo nel mio sistema nervoso e seguo le piste di luce che si proiettano sulla fodera delle palpebre.
Mi accorgo che un’immagine è lì da tempo.
Ci sono io in mezzo a un fiume. Ho l’acqua alla gola. Perché sono lì? Sembra che io sia ferma e che non riesca più ad andare avanti mentre l’acqua mi viene addosso. Ecco la mia vita, penso. Vedo la sponda che voglio raggiungere, non è troppo lontana, ma il mio posto è in mezzo all’acqua. Sono di spalle e so che lì sotto c’è il mio corpo, affondato e immobile.
Ecco, dottore, questo è quello che vedo.
“Molto bene, ci fermiamo qui.”
Dopo qualche tempo, torno a cercare l’immagine: c’è ma presenta alcune variazioni. Ci sono sempre io nell’acqua. Ora però le mie spalle sono emerse, la riva opposta si è avvicinata, sembra che io sia avanzata.

Durante i mesi, gli anni di analisi, l’immagine continua la sua evoluzione al mio posto, indipendente dai fatti della mia vita.
Io nel frattempo sto nascosta in questo luogo protetto al sesto piano di uno stabile borghese vicino a Piazzale Loreto, prossimo al brulichio della stazione.
E intanto procedo nell’acqua, questo mi basta per avere fiducia. L’argine del fiume si avvicina, si avvicina, fino a che un giorno l’immagine mi restituisce una me stessa sulla terra ferma. Fradicia eppure asciutta, come può accadere nei sogni.
“Molto bene, ci fermiamo qui.”
Sarà poco dopo che, durante una seduta, mi accorgerò di un bosco, entrato nell’inquadratura della mia immagine. Un bosco, non una foresta, un panorama all’apparenza addomesticabile pur nel suo essere selvatico.
Quando in una fiaba c’è un bosco, verrà attraversato il prima possibile. È come la pistola di Anton Cechov: se in un racconto compare una pistola, prima o poi bisogna che spari. Anzi, il bosco è alle origini di questo concetto, come molti altri elementi della fiaba.
Attraverserò il bosco a occhi chiusi e non vedrò mai ciò che è ospitato da questa distesa di alberi, poiché l’immagine d’un tratto scomparirà. Rimarrò nel bosco mesi, forse anni. Saprò di essere nel bosco, ma l’immagine non ci sarà più, quindi mi sarà impossibile capire che cosa sto incontrando in questo spazio di ombre fra gli alberi.
“Dottore, non trovo più la mia immagine.”
Intanto perderò pezzi di vita, amici, relazioni. Inizierò a pensare alla fine di tutto, alla morte, mentre attraverserò il bosco nel buio più totale.
Poi l’immagine tornerà.
Tornerà e apparirà una radura.
C’è una parola tedesca che traduciamo con radura, la parola è Lichtung. Ha a che vedere con la luce (Licht), ma anche con la condizione simultanea di ombra e luce. Il chiaroscuro, ciò che esce dal nascondimento.
Oltre il bosco (o forse in mezzo al bosco, perché non so quando finiscano esattamente gli alberi, e se mai avranno una fine) c’è una radura, alla fine della radura ci sono io che guardo una casa. La casa ha due piani ed è una casa abitata. E io ci sto andando, sto andando proprio lì.
Da allora l’immagine non presenta evoluzioni.
Si tratta di una carta dei tarocchi o di una casa vera?
È solo questione di tempo. Prima o poi andrò un po’ più in là, dove ricomincia il bosco, e l’immagine mostrerà un nuovo mutamento.
*
Una mia amica a volte usa la parola posarsi. Di recente ci siamo incontrate e mi ha parlato di una città dove ha vissuto tanti anni e dove è stata costretta a cambiare oltre quindici case in poco tempo. “A un certo punto uno ha bisogno di uno spazio dove posarsi”, ha detto.
Un fiume, un bosco, una radura, una casa.
Molto bene, ci fermiamo qui.
*Illustrazione in copertina di Comiale (Instagram link)
*Fotografia di Vashishtha Jogi on Unsplash

Ostrica ha una certa vocazione al nascondimento e alla stanzialità. Si impegna a filtrare il mondo attraverso la sua conchiglia. Conosce il verbo crogiolarsi e tutti i suoi sinonimi. Fantastica di produrre una perla, un giorno.
PODCAST > L’articolo “Un’immagine / Il fiume” letto da Comiale [Spigola].