Il sale di una vacanza invisibile
La morale la voglio anticipare: ogni viaggio si compone più di quello che non si è visto per manifesta incapacità, ed è fatto di ciò che non si è scelto. E cioè, il resto del mondo.
Il resto del mondo bussa oltre l’inquadratura delle fotografie delle nostre ferie d’agosto. Toc toc.
Gli amici telefonano:
Davvero fate le vacanze in Polonia?
Sì.
Ma la Polonia è piatta.
Sono preoccupati per noi perché vengono dalla Pianura Padana, come noi, e hanno orrore dei luoghi piatti.
Forse anch’io li temo, e infatti di notte mi trovo a sognare la verticalità di una roccia che offre i suoi frastagli all’acqua; sogno scogliere a picco sull’oceano; sogno la Galizia spagnola e le regioni che la precedono; sogno le Alpi che abbiamo attraversato dal Tarvisio, vagheggio una fuga verso l’alto, con tutti i connotati di un famoso romanzo di Anne Marie Schwarzenbach che prevedeva un riparo sulle piste da sci, dagli sfaceli della pianura in guerra.
SPROFONDARE
In Polonia, in un’altra Galizia, iniziamo invece a scendere. Già siamo sprofondati nei sedili della nostra Lancia Musa durante i mille chilometri che separano Cracovia dalla laguna veneziana impaludata dall’estate. Mille chilometri spezzati a Graz, dove le vetrine del centro sono dominate da completi in lana cotta che ricordano le mogli di The Handmaid’s Tale, la serie.
Poi continuiamo a sprofondare. Con gli occhi innanzitutto: arrivati in Polonia capiamo che ogni angolo è una pietra d’inciampo. Inciampiamo su un mondo incorporeo, non c’è guida turistica che tenga. Intanto perché molto di quello che c’era cento anni fa non c’è più, bombardato via, cacciato via, rimpiazzato, trafugato; e poi perché quello che c’è è passato attraverso troppi setacci. I segni sono stati levigati, però si intuiscono le increspature accanto ai monumenti, come fossero le radici degli alberi che premono per uscire dal catrame.
CHAVERIM
Sprofondiamo nelle vedute di Canaletto che fanno da spunto filologico per la ricostruzione di Varsavia; sprofondiamo a Kazimierz e a Podgorze, i quartieri ebraici di Cracovia, e scendiamo letteralmente nel Museo della Storia degli Ebrei polacchi di Varsavia. Sui muri di Kazimierz appaiono testi in ebraico moderno che provo a leggere senza successo, perché non ricordo quasi nulla dell’ebraico studiato a Gerusalemme tanti anni fa. Una delle poche frasi che arrivano da quella lontana estate è: anachnu chaverim (םחברי אנחנו ). Noi siamo amici. Poi sprofondo in un libro di Francesco Cataluccio, Vado a vedere se di là è meglio, un libro che contiene tante storie di ebrei dell’Europa centro-orientale. Un timoniere fantasmatico. Filippo sprofonda fra le braccia del barocco che si attorciglia nelle chiese, un barocco nero e dorato. Io allora sprofondo nei numerosi esemplari di classicismo socialista, mi faccio cemento, blocco grigio, sono risucchiata da una materia spoglia: a Nowa Huta, sotto la Galleria d’arte Moderna di Cracovia, sotto la montagna del Palazzo dei Soviet di Varsavia.
Forse abbiamo incontrato una specie diversa di quella fuga verso l’alto che desideravo giorni fa.
Bisognerebbe avere una postura da archeologi per capire qualcosa qui, invece noi siamo semplici turisti e da turisti ci comportiamo.
MIO RIVESTIMENTO TERRENO
E infatti scendiamo nelle miniere di sale di Wieliczca, intruppati insieme a un gruppo di quindici persone e una guida vigile come un cane da pastore. Ci avverte che se seguiremo un altro gruppo lei non potrà più recuperarci. Qualcuno soffre di claustrofobia? Alziamo la mano io e un signore alto che si è portato dietro moglie, figli e nipoti.
Giuro a me stessa che saprò controllarmi. Con il respiro rimarrò connessa al mio corpo, che è il mio rivestimento terreno e lì dentro sarò libera. Dovrò sguazzare in silenzio nel mio corpo e non pensare alle zone d’ombra fitta senza pertugi, alle gallerie che finiscono in un lago cieco, a tutta la terra che sta sopra la nostra testa, le zolle inamovibili, i blocchi di sale e roccia che ci separano dalla crosta dell’asfalto. Siamo ben sotto la fine delle radici degli alberi, molto sotto i luoghi dove vivono i vermi nel buio dei loro sensi assenti. Siamo sotto tutto, insieme ad altre centinaia di persone che tuttavia io non considererò durante l’attacco di claustrofobia perché starò navigando per le acque cristalline del mio corpo con il respiro che spinge le vele.
IL BUFALO DI ROSA LUXEMBURG
Invece non mi accade nulla. È tutto molto confortevole in questa miniera. Per risalire è previsto un ascensore. L’ascensione durerà un grumo di secondi. La cifra spropositata che abbiamo pagato per venire prelevati dal nostro albergo all’alba può esporre le sue ragioni: Sicurezza! Areazione! Noi cerchiamo anche la suggestione, però. E in effetti il percorso nella miniera si snoda per corridoi levigati dove possiamo toccare queste pareti di sale nero e tastare una materia rocciosa e tenera al tempo stesso, che si organizza qua e là in stalattiti e stalagmiti scintillanti. Siamo invitati a respirare a pieni polmoni: questo sale fa bene agli alveoli.
Lo spazio si apre in grotte sempre diverse, dove i minatori hanno creato statue, bassorilievi, altari. Religiosissimi e legati al potere regio e alle leggende, questi uomini – minatori e scultori – producevano i propri simulacri per la preghiera. Che tutto andasse bene, che il sale rimpinguasse le casse del regno, del paese, della corona, dello stato.
Una simulazione illuminotecnica fa brillare una grotta per riprodurre un’esplosione in miniera.
Ogni cosa viene mostrata per suscitare in noi stupore.
Si intravedono qua e là alcuni cavalli di pelo sintetico con gli occhi di plastica. I cavalli vivevano dentro la miniera. Passavano qui le notti e i giorni della loro vita e venivano riportati in superficie solo quando si ammalavano oppure diventavano troppo vecchi per continuare a lavorare. Penso a una lettera di Rosa Luxemburg dove viene descritto un bufalo rumeno costretto al lavoro e alle frustate. Tornata a casa ritrovo il pezzo e adesso voglio riportarlo:
Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva quel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta…
VORRÀ DIRE?
Alla fine una turista giapponese si perde, ci raggiunge piangendo mentre stiamo per venire issati verso la luce che sta a circa 135 metri sopra di noi. Quando entriamo nell’abitacolo mi accorgo che i suoi occhi sono ancora lucidi. Le chiedo, Stai bene? Lei sorride e scuote la testa, un codice che non riesco a capire. Vorrà dire sì? Vorrà dire no? Alla fine dice, Ho avuto tanta paura.
La rassicuro. Non devi avere paura, non vedi che qui è tutto così sicuro?
POSTICINI
Stretti stretti usciamo a rimirare l’ultimo negozio di souvenir. Ho tempo di fare due calcoli e decidere se comprare o meno una lampada di sale rosa. Ne ho viste molte nelle sale yoga che ho frequentato a Milano e nei negozi di libri esoterici. Da dove viene tutto questo sale rosa? Ci penserò un’altra volta. Ai cancelli notiamo le code disperate di chi non ha prenotato la visita e aspetta di venire assegnato a un tour nella propria lingua. Sul pullman del ritorno, una simpatica guida chiede: Where do you want to stop, my friends? Diamo il nome del nostro albergo, il cielo si sta rannuvolando, faremo un riposino, una sauna, e usciremo di nuovo per assicurarci uno spuntino vegano in uno dei tanti locali che popolano la città di Cracovia, magari al di là della Vistola, vicino alla Fabbrica di Schindler dove il recente Museo di Arte Contemporanea, il MOCAK, contiene un delizioso caffè. Un posticino niente male. In fondo siamo pur sempre in vacanza.
Ostrica ha una certa vocazione al nascondimento e alla stanzialità. Si impegna a filtrare il mondo attraverso la sua conchiglia. Conosce il verbo crogiolarsi e tutti i suoi sinonimi. Fantastica di produrre una perla, un giorno.
*Illustrazione in copertina di Comiale
PODCAST > “Il sale di una vacanza invisibile” di Elena Cattaneo, letto da Comiale.