Quei notturni pomeriggi invernali
Dicembre inoltrato. Si avvicina il solstizio. Un bel giorno, alle cinque, di colpo è già buio. La settimana successiva, sarà alle quattro. Vado a prendere mio figlio all’asilo e il consueto scenario adiacente al mio sguardo non si distingue più, la notte è anticipata. Una notte che non è notte.
I bambini fanno merenda e si rincorrono sul piccolo spiazzo davanti all’entrata. Non ne distinguo più i volti al volo. Le finestrelle gialle delle case intorno sembrano occhi luminosi, svettano qui e là le lucine colorate, i confini delle cose sono meno definiti. Per alcuni questa sottrazione di luce è deprimente, a me, invece, piace. Mi regala la sensazione rassicurante e ovattata di un periodo sospeso. È come un abbraccio scuro e avvolgente, talvolta costellato da una foschia più o meno fitta. La verità è che questi pomeriggi di dicembre mi riportano ancora oggi indietro nel tempo, tra le stradine del mio nativo paese di provincia, risonanti ancora delle nostre risate bambine.
Facevo il tempo pieno, uscivo dalla scuola elementare alle quattro e mezza. Quando la consueta luce pomeridiana scompariva presto, sapevo che il Natale e le feste si stavano avvicinando, dunque era una gioia. Correvo fuori dal portone assieme ai miei compagni, un gruppetto fitto di berretti, sciarpe e cappottini. Le mani concave per soffiarci dentro e scaldarle. Che fosse caduta o meno la neve, in quei giorni era tutto bello. In testa filastrocche e canzoncine, racconti e presepi. Le vacanze alle porte con tutto il loro carico di aspettative. Giocavamo sul selciato davanti alla scuola ed era più facile nascondersi. Solo le luci gialle di un lampione a illuminare una porzione di strada fredda, tutto intorno l’ombra.
La settimana prima di Natale mi organizzavo con le amiche più strette per andare a cantare La Stella, un rituale tipico delle mie parti. Eravamo solo in quarta o quinta elementare eppure libere di andarcene in giro per le vie del quartiere. Prendevamo le dovute distanze dagli altri gruppetti e poi decidevamo il percorso da fare. Quindi ci piazzavamo davanti alla prima abitazione con le guance rosse, gli occhi sbarluccicanti, le mani profumate di mandarini che riempivano le tasche. Tiravamo fuori la scaletta delle canzoni e suonavamo il campanello.
Driin!
Aspettavamo un pelo trepidanti finché la luce dell’entrata s’accendeva. A volte l’abbaiare di un cane spezzava l’attesa. Quando la porta si apriva e compariva una sagoma attaccavamo a cantare le canzoni della tradizione natalizia. Poteva capitare che da dietro spuntassero anche altri individui, adulti, bambini, nonni, animali, tutti pressati sull’uscio per non prendere troppo freddo e allo stesso tempo assistere alla performance canora.
Alla fine del repertorio la sagoma si avvicinava e ne riconoscevamo la faccia, a volte con sorpresa e disagio, magari era qualcuno a cui l’avevamo combinata grossa o una maestra. Costui o costei si incamminava sul vialetto e sorridendo ci allungava la mancia; noi raccoglievamo il bottino, ringraziavamo, auguri e ciao. Via verso la casa successiva.
Era la prima volta che ce ne andavamo in giro da sole. E perlopiù al buio. Guadagnavamo anche un prezioso gruzzoletto tutto per noi: la cosa ci eccitava non poco.
Capitava solo in quell’occasione di ottenere tanta straordinaria libertà. Le strade del quartiere erano nostre. Ad accompagnarci, fedeli, quei notturni pomeriggi invernali.

*In copertina: fotografia di Martina Valenziano
PODCAST > L’articolo “Quei notturni pomeriggi invernali“, scritto e letto da Martina Valenziano.