La scatola
Molto tempo prima, la scatola aveva contenuto un ferro da stiro. Lo stesso vecchio ferro da stiro che usava il mercoledì pomeriggio per passare e ripassare le lenzuola della signora, finché anche l’ultima piega non avesse ceduto. Poi le spalancava di nuovo e ricomponeva il letto a due piazze, una delle quali si era ormai abbandonata sotto il molle peso dell’ottantenne. Talvolta si concedeva il lusso di considerare quanto insensate fossero quelle operazioni – le ultime, prima di lasciare l’appartamento – almeno finché il rigido senso del dovere e il rispetto per la signora, doni entrambi di sua madre, non la rimproveravano arrossendole le guance.
La scatola era accanto alla porta. Odorava di cantina e la provenienza era confermata da un sottile velo di polvere umida. Una striscia di nastro adesivo teneva insieme i lembi di cartone con le ultime forze. Era piena, ma sollevandola si accorse che non era pesante come aveva temuto. Ringraziò con calore la signora, che la strinse in un inaspettato abbraccio, e si chiuse la porta alle spalle.
Quando anche l’eco degli ultimi passi per le scale si fu spento, la casa si riempì del silenzio della solitudine: l’acqua che scorreva nei termosifoni, il ticchettare dell’orologio a pendolo appeso al muro di fronte alla finestra che si alternava con quello della sveglia sul comodino, nella camera accanto, il vibrare improvviso del frigorifero in cucina, l’inatteso scricchiolio di una mensola. Eppure, tra i rumori di quel silenzio ce n’erano altri. Era infatti il silenzio di chi non era stato sempre solo: c’erano risate di bambini, urla e segreti sussurrati, sospiri preoccupati, singhiozzi di capricci e di disperazione, esplosioni di gioia e di spavento. C’era una vita intera in quel silenzio. La signora chiuse gli occhi, e si mise in ascolto.
Trasportare la scatola nel tragitto fin su al suo appartamento («quarto piano senza ascensore, ma con una bella esposizione a sud e ben servito dai mezzi», aveva detto il proprietario da cui l’aveva in affitto) non era stato poi così complesso, ma fu comunque con sollievo che la depositò sul tappeto all’ingresso. Interrogò l’orologio accanto alla porta per scoprire di avere ancora un’ora, prima del ritorno dei bambini. Levò le scarpe e il cappotto umido, passò rapidamente in cucina, dove accese il fornello sotto la moka del caffè. Il divano, rivestito di un verde morbido, liso solo a tratti, si fece finalmente carico della sua fatica, mentre la moka cominciava già a gorgogliare.
Di lì a poco, con la tazza bollente tra le mani, diresse lo sguardo verso l’angolo più vicino alla finestra, dove i bambini avevano voluto montare l’albero. «Così da fuori si vedranno le luci!» Per il momento tuttavia era ancora spoglio, di un verde così verde che pareva fosse orgoglioso di mostrarsi chiaramente finto. Solo, su uno dei rami più bassi, la figlia minore aveva appeso – appoggiato, più che appeso – un cuore d’un rosso vivo, ricoperto di lana e di glitter. Con certe combinazioni di luce e molta fantasia mandava qualche debole riflesso. Per quest’anno avrebbero fatto senza luci.
Ne aveva parlato qualche giorno prima alla signora, cui piaceva ascoltare le storie dei suoi bambini e pure non avendoli incontrati che in qualche fotografia mostrata di fretta sullo schermo del telefono, mostrava verso di loro un affetto istintivo e generoso. Quella mattina ad accoglierla aveva trovato la scatola. «Ai bambini piacerà», le aveva detto. Posata la tazza vuota si mise in ginocchio sul tappeto e la aprì.
A una prima occhiata non riuscì a distinguerne il contenuto. Fogli di giornale in bianco e nero, di una carta molto vecchia (su una delle pagine lesse una data: “10 gennaio 1966”) ma conservata con cura. Mentre con altrettanta premura disfaceva i pacchetti notò, su una pagina del 15 gennaio 1967, la fotografia di un uomo del tutto simile a quello che sorrideva nella cornice d’argento che ogni mercoledì spolverava accanto al telefono a rotella della signora. Solo molto più magro, e senza sorriso.
La scatola era piena di addobbi. C’erano fragili intarsi di vetro soffiato e preziose figure di legno lavorato: un cavallo a dondolo, con una minuscola campanella fissata alla coda, una cometa, un angelo con un libro tra le mani, la bocca spalancata per lo stupore. C’erano palline di ogni colore e materiale: di vetro, di stoffa, di polistirolo pitturato a tempera, con ricami di neve e riflessi argentati, su alcune era scritto un nome; e vecchi ganci per appenderle, talvolta nessuno, talvolta un semplice elastico. C’era una quantità di quelli che riconobbe subito sorridendo come piccole opere di mani bambine: un lavoretto per ciascun anno – ricostruì, che andava dal 1967 al 1974 e poi ancora, qualche biglietto con l’ondeggiare tipico di un corsivo incerto, tra il 1994 e il 2000. «Auguri, nonna». Mentre pian piano la scatola si svuotava trovò un paio di bavaglini da neonato, uno rosa, uno azzurro, ricordo de “Il mio primo Natale”. E ancora, una serie di biglietti aziendali di buone feste con il logo delle “Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck” (dal 1952 al 1965).
Il fondo era occupato da un unico grande pacchetto – «La punta», pensò – che rigirò tra le mani con grande attenzione. Una carta spessa, ormai ingiallita custodiva, scoprì, una stella grande come la sua mano, con una lunga coda. Era ricoperta di stagnola, ma da qualche angolo più logoro si poteva sbirciare uno scheletro di rametti intrecciati. La avvolgevano due fogli che dovevano essere stati strappati da un quaderno, poi legati insieme con un nastro di velluto. Bianchi, entrambi, a eccezione di una doppia riga di inchiostro nero – un tratto maschile questa volta, le parve, che sembrava aver meditato ogni lettera: «Ciò che in somma qua giù perdesti mai, / là su salendo ritrovar potrai»*.
Allora le fu chiaro che la scatola conteneva non addobbi, ma una vita intera, e si sorprese in un brivido con un nodo alla gola. Il silenzioso pomeriggio le sembrò riempirsi di voci, di storie non raccontate che da una scintilla di vetro, o da un’incrinatura nel legno. Da un bagliore lontano, da un passato che sopravviveva sotto un velo di polvere, e che le era donato perché lo facesse splendere ancora. Raccolse i fogli di giornale e li ripose nella scatola. Poi appese gli addobbi. Per ultimo sistemò il lavoretto di sua figlia. Il cuore rosso di lana e di glitter approvò la nuova collocazione, appena sotto la stella, mandando uno scintillio soddisfatto. Sì, i bambini sarebbero stati contenti. E l’albero avrebbe avuto la sua luce.
*Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, XXXIV, 75

Sogliola ha due facce. Una fruga sul fondo, dove l’acqua finisce e ricomincia la terra. All’altra non bastava un occhio solo, per tutto quel cielo di mare. Sogliola è una giornalista con gli occhi spalancati sulla poesia.
In copertina: fotografia di Joanna Kosinska on Unsplash
PODCAST > Il racconto “La scatola“, scritto e letto da Letizia Rossi.